Mediatrice o facilitatrice? Per oltre 40 anni, la Cina ha evitato le crisi globali. Oggi invece difende i propri interessi all’estero e punta a esercitare una maggiore influenza ai tavoli negoziali. ma è troppo presto per parlare di mediazione.
Prima il Medio Oriente, poi l’Ucraina. Ci credono in pochi, ma dopo aver facilitato l’appeasement tra Iran e Arabia Saudita, la Cina sembra determinata a svolgere un qualche ruolo nella crisi tra Kiev e Mosca. Lo suggerisce la recente pubblicazione del position paper in 12 punti. Un documento vago – accolto in occidente con scetticismo – che più che fornire soluzioni al conflitto esplicita la visione cinese delle relazioni internazionali, nemmeno della guerra russo-ucriana: dall’opposizione alle sanzioni unilaterali alla critica della “mentalità americana da guerra fredda”.
Con l’accordo per la normalizzazione dei rapporti tra Iran – Arabia Saudita, Pechino però ha dato concretezza alle proprie velleità pacifiste. Non capitava da anni che la Cina riuscisse a portare a termine con successo una mediazione: i “tavoli a sei” con la Corea del Nord – tra il 2003 e il 2009 – erano stati un fallimento, così come i ripetuti tentativi di ospitare negoziati tra Israele e Palestina. L’intesa tra Teheran e Riad restituisce credibilità alla Cina, per quanto – come osservato da molti – il fortunato esito sia in realtà il frutto delle prolungate trattative di Iraq e Oman. Pechino ha saputo sfruttare la congiuntura favorevole, ovvero il crescente distanziamento di Riad da Washington e l’isolamento internazionale di Teheran. Tuttavia, è rilevante anche solo che ci abbia provato.
Dalla non ingerenza alla pace in Africa
Attenendosi al principio della non ingerenza, per oltre quarant’anni la Cina ha mantenuto una distanza di sicurezza dalle grandi crisi globali preferendo dedicarsi all’economia. Ma proprio l’espansione dei capitali cinesi all’estero ha via via reso necessario un maggior coinvolgimento nella gestione della sicurezza nei paesi dove ha investito. Soprattutto dopo il lancio della Belt and Road Initiative. Da quando nel 2002 ha nominato il suo primo inviato per il Medio Oriente, Pechino ha creato almeno altre 18 posizioni analoghe per sbrogliare crisi Asia Centrale, America Latina, Europa Centro-Orientale, e isole del Pacifico. Da ultima, lo scorso anno, l’assegnazione di un rappresentante per il Corno d’Africa.
Il continente africano è stato a lungo considerato un laboratorio per la strategia cinese all’estero: oltre a ospitare l’unica base militare cinese all’estero, l’Africa è l’area del mondo a ospitare il maggior numero di forze di peacekeeping cinesi. E proprio in Africa ha messo a segno la prima mediazione internazionale durante la guerra civile nel Darfur, nel 2008, e in Sud Sudan dieci anni più tardi. L’unica vera volta in cui Pechino ha guidato con successo un negoziato di cessate il fuoco e ridefinizione dei confini internazionali. Un’ulteriore svolta è arrivata a giugno scorso quando la Cina ha tenuto in Etiopia una conferenza di pace per la regione del Corno; la prima del genere organizzata da Pechino a livello mondiale.
Una Cina “pacifista” contro l’egemonia americana
Il position paper in 12 punti per l’Ucraina e la recente mediazione nel Golfo si inseriscono quindi in un trend che vede il gigante asiatico uscire allo scoperto dopo decenni di basso profilo in politica estera. Complice la perdita di appeal dell’occidente nel Sud globale, la Cina sembra sempre più propensa a proporsi come un’alternativa per i paesi in via di sviluppo, di cui si considera ancora capofila. Lo aveva detto il presidente Xi Jinping – pochi giorni prima dell’accordo tra Iran e Arabia Saudita- davanti al parlamento: la Cina dovrebbe “partecipare attivamente” alla “governance globale” e “infondere più stabilità ed energia positiva alla pace mondiale”. A questo scopo lo scorso anno Pechino ha inaugurato la Global Security Initiative (GSI) – concetto che richiamandosi al principio della sicurezza indivisibile – punta a prevenire guerre e conflitti attraverso “il rispetto reciproco”, il “dialogo senza confronto”, i “partenariati senza le alleanze”, le sinergie “win-win” anziché i “giochi a somma zero”. Un approccio che la Cina contrappone al modus operandi degli Stati Uniti, basato sull’uso della forza e della cosiddetta “mentalità da guerra fredda”. Il valore politico dell’operazione cinese è evidente. Talmente chiaramente che viene da dubitare sia la pace, anziché pestare i piedi a Washington, il vero scopo.
Attenzione infatti a non sovrastimare le ambizioni di peacemaking cinesi. Tra le righe, Pechino riconosce la propria inesperienza. Che si tratti di conflitti in Africa, guerre per procura in Medio Oriente, o del conflitto in Ucraina, la Cina sostiene la necessità di soluzioni locali descrivendosi come un facilitatore più che un moderatore in senso proprio. “Le soluzioni possono essere trovate solo dall’interno”, affermava nel 2021 l’ambasciatore cinese all’Onu riferendosi alla guerra in Etiopia. Come spiegano Chris Alden e Lukas Fiala di LSE Ideas, “la Cina preferisce sedersi al tavolo piuttosto che dettare l’agenda”. Prendere le distanze serve da una parte a salvare nella forma la tradizionale politica della non interferenza, dall’altra a sfilarsi nel caso i colloqui deraglino.
Il caso etiope
Rileggendo le dichiarazioni dell’inviato cinese durante e dopo la conferenza di pace in Etiopia lo shift narrativo è piuttosto evidente. La Cina – ha sentenziato trionfalmente Xue Bing – vuole svolgere un ruolo più importante “non solo nel commercio e negli investimenti ma anche nella sfera della pace e dello sviluppo”. Quantificando l’impegno, il diplomatico ha persino aggiunto che “Pechino fornirà anche assistenza nel mantenimento della pace, coopererà con le forze dell’ordine e accelererà l’assistenza tecnica ai laboratori di investigazione criminale nei paesi della regione”. Grandi impegni rimasti per ora nell’etere. Sì perché in realtà il gigante asiatico non ha svolto alcuna funzione concreta nella firma del cessate il fuoco tra il governo etiope e i ribelli tigrini che lo scorso dicembre ha interrotto due anni di scontri grazie alla mediazione di Unione africana e Sudafrica. Non della Cina. A sette mesi dalla conferenza, facendo un passo indietro, Pechino ha molto ridimensionato il proprio contributo nel processo di pace in Etiopia, rispolverando la vecchia retorica che sono gli “africani a dover risolvere i problemi africani con modi africani”. Che il conflitto nella regione del Tigrè è “un affare interno”, e che “il popolo etiope ha la saggezza e la capacità di risolvere [il problema] autonomamente”.
Dall’Africa al Medio Oriente
L’esperienza cinese in Africa rivela elementi importanti per decifrare le future mosse di Pechino. Innanzitutto resta cruciale il movente economico. Come nel Sudan/Sud Sudan, dove la Cina ha investito oltre 20 miliardi di dollari, la volontà di pacificare la regione del Golfo risponde alla necessità di proteggere le forniture energetiche per evitare un’eccessiva dipendenza dal petrolio russo. Si conferma inoltre la promozione di un “approccio olistico” alla sicurezza. Lo dice anche la GSI: è lo sviluppo economico che porta stabilità interna. In questo frangente la Belt and Road Initiative conserva una notevole importanza, nonostante l’indebitamento dei paesi partner e l’insostenibilità economica di alcuni progetti infrastrutturali abbiano indotto il governo cinese a centellinare gli investimenti. In Ucraina già si vagheggia una ricostruzione nazionale trainata dalle aziende cinesi.
Guardando indietro, uno dei principali scogli nei processi di mediazione cinese resta la reticenza a coinvolgere tutte le parti in causa, e una predilezione per le forze politiche al potere: dal Partito del Congresso Nazionale di Khartoum al governo del premier etiope, Abiy Ahmed Ali, Pechino ha sempre cercato di finalizzare condizioni favorevoli per i regimi amici (che ha anche foraggiato con forniture militari). Spicca la mancata partecipazione alla conferenza di Addis Abeba dell’Eritrea, e soprattutto del Fronte popolare di liberazione del Tigrè, due interlocutori fondamentali senza i quali non è nemmeno possibile parlare di “mediazione” in senso proprio. Così come la proposta di pace per l’Ucraina – al momento – non vede un coinvolgimento reale di Kiev, con cui i contatti diplomatici sono estremamente limitati.
Un altro elemento non trascurabile: il coordinamento con gli Stati Uniti è stato determinante durante i colloqui in Sudan, ma oramai risulterebbe impraticabile a causa delle tensioni geopolitiche tra Pechino e Washington. In Medio Oriente cavalcare il comune risentimento verso l’ingerenza americana ha permesso a Pechino di sfilare a Washington il titolo di “peacebroker”. Ma non sarà facile replicare la vittoria diplomatica in Europa, dove – sebbene non ai livelli americani – la Cina viene comunque vista con diffidenza e l’alleanza transatlantica con gli Stati Uniti serve più che mai davanti alla minaccia russa. E poi rimane aperta una questione: nel caso in cui Arabia Saudita e Iran non dovessero tenere fede alla parola data, la Cina cosa farà? Dagli accordi in Sud Sudan del 2013, Pechino non sembra più essersi interessato del turbolento periodo di transizione che – entro il 2023 – doveva portare il giovane paese africano alle elezioni, ora posticipate di almeno 24 mesi.
Una “mediazione” personalissima
Per Pechino è un terreno nuovo, e il rischio di fallire espone danni reputazionali potenzialmente peggiori dell’inazione. Soprattutto per Xi. Forte di un terzo mandato quinquennale e con i suoi fedelissimi nelle posizioni apicali del partito-stato, il leader cinese può ora assumere posizioni anche più spavalde in politica estera. Ma un’eccessiva personalizzazione, come in altri frangenti (pensiamo alla Zero Covid), comporta scomode responsabilità qualora le cose dovessero andare male. In Medio Oriente ha funzionato. La visita del leader cinese a Riad lo scorso dicembre è stata determinante nel compiere l’ultimo miglio dei negoziati.
Ma nel caso della Russia, la personalizzazione ha assunto proporzioni parossistiche. Definendo Putin “il mio migliore amico”, Xi compromette l’imparzialità della Cina più di quanto non facciano le voci non confermate di un presunto supporto militare a Mosca. E non basterà concedere una telefonata a Zelensky dopo un anno di silenzio per riallineare i piatti della bilancia.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Esquire]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.