La Cina lancia la prosperità comune: L’opalescenza del sistema politico cinese spesso pone le aziende straniere davanti a scelte difficili. Una sola parola pronunciata dai leader può cambiare repentinamente l’indirizzo economico del paese, inducendo a errori di valutazione. E’ quanto accaduto lo scorso anno, quando il presidente cinese Xi Jinping ha introdotto nel vocabolario quotidiano la parola “prosperità comune” (#gongtongfuyu). Cosa vuol dire in concreto? Quali sono i rischi per le compagnie occidentali, quali invece le opportunità? Scoprilo nella nostra ultima analisi in collaborazione con Itwill, società benefit impegnata nello sviluppo strategico del made in Italy sul mercato internazionale con un particolare focus sulla Cina.
Navigare nel mercato cinese non è cosa facile: le dimensioni territoriali e le differenze culturali richiedono alle aziende straniere ingenti capitali e conoscenze specialistiche. L’opalescenza del sistema politico impone ulteriori sforzi interpretativi. Una sola parola pronunciata dai leader può cambiare repentinamente l’indirizzo economico del paese, inducendo a errori di valutazione. È quanto accaduto lo scorso anno, quando il presidente cinese Xi Jinping ha introdotto nel vocabolario quotidiano la parola “prosperità comune” (gongtong fuyu 共同富裕). Presentando il concetto, Xi ha affermato che “la prosperità comune per l’intera popolazione sarà sostanzialmente raggiunta entro la metà di questo secolo e il divario tra i livelli di reddito e di consumo dei residenti dovrà aver raggiunto un intervallo ragionevole”.
La “prosperità comune” da Mao a Xi
Il termine gongtong fuyu non è nuovo. Lo pronunciò per la prima volta Mao Zedong negli anni ’50, e fu ripreso da Deng Xiaoping nel 1986, all’inizio del programma di riforme economiche. Il concetto suonerà familiare a molti: secondo il Piccolo Timoniere, la Cina avrebbe dapprima aperto al mondo le sue province costiere, “permettendo ad alcuni di arricchirsi per prima”, per poi solo in seguito raggiungere una prosperità a livello nazionale. Xi ritiene che, dopo aver accumulato ricchezze, ora sia il momento di ridistribuirle più equamente tra la popolazione. Concretamente la prosperità comune ambisce quindi a ridurre le diseguaglianze sociali, ampliando la classe media, categoria che, secondo la Banca Mondiale, arriverà a inglobare oltre il 70% dei cinesi entro il 2030, con un incremento del valore del mercato di beni e servizi a quota 10 mila miliardi di dollari.
L’impatto sul business
Come raggiungere la gongtong fuyu? Condannando “l’espansione disordinata del capitale” (防止资本野蛮生长), negli scorsi mesi il governo ha cominciato a regolamentare in maniera più ferrea le attività associate alle disparità di reddito: dal fintech al tutoraggio doposcuola (privilegio per poche famiglie benestanti), passando per il livestreaming, ascensore sociale per molti nuovi ricchi. La stretta normativa è stata interpretata dai mercati come una guerra tra ricchi e poveri. Secondo Bloomberg, le aziende cinesi nei segmenti interessati hanno perso oltre mille miliardi di dollari nell’arco di un anno. Molte sono state costrette ad apportare drastici tagli al personale; in alcuni casi addirittura a dichiarare bancarotta. Non è la prima volta che la politica impatta negativamente il mondo del business. Era già successo nel 2013, quando l’inizio della presidenza Xi Jinping coincise con l’avvio di un’agguerrita campagna anticorruzione tra i ranghi del partito. Secondo una ricerca della Kellogg School of Management, l’operazione ha provocato un calo del 55% nelle importazioni di lusso verso la Cina per un valore di 194 milioni di dollari. Succederà la stesso con la gongtong fuyu?
Focus sui servizi
Da molti scambiata erroneamente per “un’utopia socialista”, la prosperità comune non implica solo una ripartizione più equa delle risorse. Punta anche a migliorare i servizi, e a colmare le disparità geografiche tra le dinamiche province orientali e le aree occidentali più povere. Su questo tema è tornato recentemente il premier Li Keqiang, ricordando come “i consumi sono un motore costante della crescita economica e contribuiscono a garantire e migliorare i mezzi di sussistenza delle persone”. Incentivando la spesa nel terziario, le autorità hanno elencato nello specifico i settori medicale, sanitario, nonché dell’assistenza all’infanzia e agli anziani. Proprio la cosiddetta silver economy presenta notevoli opportunità. La popolazione cinese più avanti con l’età costituisce un gruppo demografico importante per i consumi, soprattutto perché è quella ad aver, per la prima volta, accumulato una ricchezza e un potere di spesa significativi: la maggior parte degli anziani ha una casa di proprietà e, non dovendo sostenere un mutuo, può destinare una fetta consistente del proprio reddito alla spesa discrezionale.
Il ruolo delle aziende
Oltre a citare l’intervento dello Stato attraverso la tassazione e la previdenza sociale, i comunicati ufficiali menzionano espressamente il supporto dei privati, invitati a contribuire alla “prosperità comune” con donazioni volontarie. All’annuncio i mercati hanno reagito d’istinto. In soli due giorni i maggiori gruppi del lusso europeo LVMH, Hermès, Kering, Richemont, e Burberry hanno perso complessivamente oltre 60 miliardi di euro di capitalizzazione di mercato. Mentre le multinazionali occidentali hanno mantenuto una posizione attendista, le aziende cinesi non hanno perso tempo ad abbracciare la nuova linea politica. I big tech cinesi, Alibaba, Tencent e JD, hanno tutti lanciato iniziative filantropiche, stanziando fondi per promuovere lo sviluppo nelle campagne, supportare le PMI, e assistere i lavoratori impiegati nella gig economy, normalmente privi di copertura assicurativa e medica. I criteri ESG (Environmental, Social, Governance; huanjing shehui he zhili 环境社会和治理) costituiscono un’utile bussola per orientarsi nell’era della prosperità comune. Una prosperità che si misura non solo in base al reddito, ma anche più in generale in termini di qualità della vita. Lo chiamano crackdown, ma in realtà ci troviamo di fronte a un build-up. Quella di Pechino è una rettificazione economica tesa a convogliare gli sforzi produttivi verso obiettivi di interesse nazionale. Con queste premesse, investire nella Responsabilità Sociale d’Impresa permette alle aziende di adeguare il proprio business al nuovo clima politico.
Puntare sulle città più piccole e sui prodotti meno costosi
Nell’era della gongtong fuyu le maggiori opportunità per il lusso e i beni di consumo sono concentrate nelle aree urbane più piccole e decentrate. Rispetto alle città di prima fascia, come Pechino e Shanghai, nelle città di livello più basso un costo della vita meno elevato induce la popolazione a risparmiare meno e spendere di più. Lo stesso è vero per i centri nelle aree occidentali della Cina. Proprio qui dal 2018 Alibaba ha riportato il maggiore tasso di crescita negli acquisti online e proprio qui il governo vuole intervenire per colmare le disparità regionali. L’espansione dell’e-commerce nelle campagne, promosso dal governo in tandem con i big tech, permetterà al contempo di sfruttare l’incremento della spesa nelle aree rurali, quelle lasciate indietro nei precedenti quarant’anni di “arricchimento glorioso”.
Al focus su servizi, responsabilità sociale, e città di fascia bassa, si aggiunge un ulteriore elemento: per sopravvivere alla rettificazione, marchi del lusso, quali Gucci ed Hermès, stanno cercando di capitalizzare gli investimenti in generi meno costosi, come i cosmetici, e altri prodotti accessibili a una fetta più ampia di acquirenti. Che la strategia funzioni lo dimostra l’invidiabile performance di L’Oréal, che ha visto le sue vendite cinesi del terzo trimestre dello scorso anno aumentare del 43% rispetto al 2019. Anche Estée Lauder ha riportato una crescita a due cifre delle vendite nette, guidata da prodotti per la cura del viso e profumi.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Itwill]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.