La liaison tra Pechino e Lima è cominciata mentre la crisi finanziaria azzoppava i mercati di Stati Uniti ed Europa, e l’economia del gigante asiatico continuava a inanellare tassi di crescita vertiginosi. L’America Latina è parsa subito una valida alternativa per accogliere gli investimenti cinesi. La seconda parte del reportage dal Perù.
L’11 marzo 2010 la partnership tra Pechino e Lima veniva suggellata da un Trattato di libero commercio -il primo mai stabilito tra Pechino e un Paese del Sudamerica-, salutato dall’allora Presidente peruviano Alan Garcìa come «una giornata storica». Da qui l’esigenza di supportare economicamente i propri investitori con l’apertura nel 2012 della prima filiale peruviana di Industrial and Commercial Bank of China, la più grande banca al mondo per valore di mercato. Un evento che scomodò persino il Presidente del gruppo, Jiang Jianqing, volato a Lima per presenziare alla cerimonia d’apertura.
L’andazzo era già chiaro. Nello stesso anno, in un rapporto dal titolo "Cina, America Latina e Caraibi – Verso una relazione economica e commerciale strategica", la Cepal auspicava che «i nostri crescenti scambi con la Cina non riproducano e rafforzino un modello commerciale di tipo centro-periferia, dove la Cina appare come un nuovo centro e i Paesi della regione come la nuova periferia». A due anni di distanza, l’8 maggio scorso, la rivista peruviana Semana Economica ha tirato un primo bilancio con un pezzo dal titolo eloquente: "Adiós al tapering: China es ahora la gran ‘preocupación’ de la economía peruana".
E’ la fine di una penetrazione silenziosa?
Alcuni mesi fa, il colosso degli idrocarburi cinese CNPC ha raggiunto un’intesa con Petrobras per la cessione del blocco 58, che si trova nel Sud del Paese e ha riserve per svariati miliardi di metri cubi di gas naturale. In base a quanto riferito lo scorso anno, l’accordo si inserirebbe nell’acquisto per 2,6 miliardi di dollari di tutti gli asset che la compagnia petrolifera brasiliana detiene in Perù, compresi tre giacimenti che al momento producono all’incirca 800mila tonnellate metriche di petrolio all’anno
La ricchezza del Perù è nascosta sotto terra. Primo produttore dell’America Latina di oro, piombo, argento, tellurio, stagno e zinco; terzo principale produttore di rame del mondo e con un regime ampiamente permissivo nei confronti degli investimenti esteri. Il Perù è un ghiotto boccone che fa gola a molti. Secondo dati della Peruvian Private Investment Promotion Agency, nel 2010 l’80% degli investimenti diretti esteri confluiti nell’industria mineraria nazionale proveniva da paesi membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), il club delle economie avanzate di cui la Cina è la grande assente. Tra il 2003 e il 2011 il Perù è stato il quarto principale destinatario di investimenti cinesi nel settore minerario, il secondo dell’America Latina dopo il Cile.
Pare che il Dragone stia continuando ad accumulare le sue provviste di rame. Soltanto tra marzo e aprile, lo State Reserve Bureau, l’ente cinese per le riserve strategiche, ha proceduto all’acquisto di 200mila tonnellate del metallo rosso, approfittando del crollo dei prezzi. E sebbene l’ammontare esatto delle scorte statali venga mantenuto segreto, un dirigente di Minmetals Non-Ferrous Metals si è spinto ad azzardare che la Repubblica popolare potrebbe diventare un esportatore netto di rame raffinato nel giro di due anni.
Quando all’inizio degli anni ’90 Lima diede il via alla privatizzazione del settore minerario, la cinese Shougang fu tra le prime società a lanciarsi a capofitto nel mercato, acquistando la statale Hierro Perù. Una mossa che al tempo venne considerato oltremodo coraggiosa, dato il caos in cui verteva il Paese sudamericano all’indomani del terremoto politico scatenato dall’autogolpe di Fujimori. Seguirono l’istituzione della legge marziale, scandali, episodi di corruzione e le dimissioni via fax del presidente nippo-peruviano rifugiatosi nella terra dei padri, il Sol Levante.
Ma nonostante le incertezze del momento il Dragone non rinunciò mai al suo posto al sole nel Paese andino, trascinando con sé le ormai ricorrenti critiche che accompagnano l’avanzata cinese nei paesi emergenti: tagli nella manodopera locale per far spazio a lavoratori cinesi sottopagati (nel 2011 il salario di un operaio della Shougang ammontava a 14 dollari giornalieri contro una media nazionale di 29), mancato rispetto delle norme ambientali, utilizzo di attrezzature obsolete e molto altro.
Ristabilito l’ordine, nel 2008, fu la volta dell’acquisizione della miniera di Toromocho da parte di Chinalco che, appartenendo alla galassia delle imprese di Stato, si è dimostrata più sensibile verso la responsabilità sociale d’impresa e gli standard internazionali in materia ambientale, sotto l’occhio vigile della Commissione per l’Amministrazione e la Supervisione degli Assets del Consiglio di Stato. Nel 2010 le compagnie cinesi Minmetals, Chinalco, Shougang e Zijing Mining Group annunciarono di voler investire 7 miliardi di dollari in progetti minerari entro il 2017. Il resto è cronaca recente.
La scorsa primavera è stato ufficializzato il raggiunto accordo tra China Minmetals Corp. e la multinazionale anglo-svizzera Glencore Xstrata per la cessione di Las Bambas, acquistata dalla compagnia cinese per 5,85 miliardi di dollari. Un prezzo stracciato, a parere dei locali. Si tratta della miniera più grande del Perù -secondo pronostici- in grado di produrre 400mila tonnellate di rame all’anno a partire dal 2015, pari al 12,5% del metallo importato lo scorso anno dalla Cina. Non solo.
Secondo due fonti consultate ad Arequipa e Cusco, confermate telefonicamente da una terza, starebbe per "diventare cinese" anche la controversa miniera di rame di Tintaya -ad oggi ancora ufficialmente della Glencore Xstrata- divenuta nel settembre 2012 scenario di accese proteste ambientaliste terminate con due morti e 50 feriti, dopo che uno studio condotto dalla chiesa cattolica locale nella regione di Espinar (dove si trova l’impianto) riscontrò nei campioni di terra e acqua elevati livelli di arsenico, rame, mercurio e altri minerali in quantità dannose per l’organismo. Lo scorso gennaio il tribunale dell’Organisation for Environmental Assessment and Regulations ha comminato alla Xstrata Tintaya, sussidiaria di Glencore Xstrata, una sanzione pecuniaria di 84mila dollari.
Al momento di assumere il potere nel 2011, l’attuale presidente Ollanta Humala promise di risolvere i contenziosi pendenti tra governo, società minerarie e popolazione locale. Tuttavia i conflitti, che durante l’amministrazione precedente hanno lasciato sul campo almeno 174 vittime, continuano ad adombrare i potenziali vantaggi del settore estrattivo, che oggi costituisce il 70% dell’economia del paese. Le sorti delle miniere peruviane, e con esse quelle dello sviluppo nazionale, si trovano nel mezzo di un energico tiro alla fune tra Humala, definito ormai "un ex di sinistra", e le frange più radicali che, fortemente critiche nei confronti di qualsivoglia progetto minerario, si fanno portavoce degli strati più poveri della popolazione esclusi dal rapido sviluppo dell’economia nazionale. Allo stesso tempo, governo centrale e minatori puntano il dito contro le autorità locali, che siedono su montagne di denaro invece di allocare correttamente le entrate fiscali.
Le contingenze economiche difficilmente saranno d’aiuto: dopo aver cavalcato l’impennata dei prezzi delle materie prime, per il 2014 Lima si attende un tasso di crescita al ribasso attorno al 5%, -secondo molti- dovuto proprio al calo delle esportazioni minerarie verso la Cina, a sua volta alle prese con un Pil in frenata. Fino ad oggi il rapporto virtuoso tra i due paesi si è retto su una strategia tipicamente win-win, come piace ai leader cinesi: la fame di materie prime di Pechino è stata appagata dal desiderio del Perù di rilanciare il proprio export. Tuttavia il rallentamento economico potrebbe presto costringere Humala a ridurre il budget per la spesa sociale, spingendolo di conseguenza a fare qualche concessione in più per evitare che i malumori popolari degenerino in nuove proteste.
Una posizione conciliatoria, questa, già adottata nel 2011 quando il governo peruviano varò una legge conforme alla Convenzione 169 dell’ILO (International Labor Organization); uno statuto giuridicamente vincolante che dà diritto di parola alle comunità indigene per l’approvazione di progetti estrattivi che le riguardano da vicino. Sopratutto per via della collocazione geografica, che vede la maggior parte delle miniere peruviane sorgere nelle aree più povere del paese, spesso in prossimità di comunità autoctone poco inclini a condividere le proprie terre per progetti dai quali non traggono alcun vantaggio diretto.
L’espansionismo cinese si è già scontrato con il risentimento delle sacche di resistenza locali, quando i lavori della Chinalco, nel distretto di Morococha, portarono alla delocalizzazione di 5000 persone, mentre nel gennaio 2013 Lumina Copper è stata costretta a congelare un progetto da 2,5 miliardi di dollari, nella regione di Cajamarca, malvisto dai residenti. Sentimento anticinese? Non necessariamente. Negli ultimi anni proteste analoghe si sono abbattute sugli interessi minerari di altri paesi. "Spesso i residenti nelle aree interessate da progetti estrattivi non sanno nemmeno che la società incaricata è cinese", ci dice una guida di Arequipa. La stessa chiacchierata Shougang Hierro Perù, secondo uno studio del Working Group on Development and Environment in the Americas, non avrebbe operato con standard più scarsi di altre società straniere, tra le quali Doe Run, compagnia statunitense annoverata tra «i peggiori violatori delle norme peruviane e internazionali».
Rimane comunque da colmare il gap culturale che impedisce ai cinesi -avvezzi in casa propria a convivere con impianti inquinanti ed espropri- di comprendere il potere e il peso sociale esercitato dai contadini in Perù. «In Cina il management è top-down, mentre in Perù si utilizza sostanzialmente un approccio bottom-up», spiega in un rapporto stilato dall’American Studies Associations Richard Graeme, vice presidente e general manager di Lumina Copper SAC, consorzio di cui fanno parte le cinesi Minmetals e Jiangxi Copper.
D’altra parte, il sistema normativo degli stati latinoamericani risulta meno permeabile alla corruzione di quanto non lo sia quello dei paesi africani, dove le aziende cinesi riescono ad approfittare più facilmente delle lacune presenti nel sistema. «L’Africa ha un più disperato bisogno di investimenti cinesi», spiega all’Atlantic Hongxiang Huang, giornalista di Chinadialogue. Nel Continente Nero le compagnie cinesi possono talvolta negoziare unilateralmente con i vari leader, mentre in America Latina si trovano costrette ad assecondare le dinamiche politiche locali del "do ut des". «Provano a elargire denaro da destinare alle scuole, agli ospedali e alle strutture pubbliche, tuttavia la comunicazione con il popolo è ancora debole». Sopratutto data la storica reticenza dei manager cinesi nel dialogare con organizzazioni non governative, attivisti e media locali.
*Alessandra Colarizi, classe ’84, bazzica l’Estremo Oriente dal 2005, anno in cui decide di chiudere per sempre i tomi di diritto privato e aprire quelli di cinese. Si iscrive alla Facoltà di Studi Orientali dell’Università di Roma La Sapienza e nel 2010 consegue la laurea magistrale. In questi anni coltiva il suo amore per cineserie e simili, alternando lo studio sui libri a frequenti esplorazioni attraverso il continente asiatico. Abbandonata la carriera accademica, approda alla redazione di AgiChina24, trascorre diversi mesi presso lo Studio Legale Chiomenti di Pechino, infine rimpatria. Oggi collabora da Roma con l’agenzia di stampa cinese Xinhua.
[La copertina è di Ailadi]