L’Africa di oggi come la Cina di Deng Xiaoping. Per centinaia di migliaia di cittadini cinesi, il continente più giovane del mondo possiede le stesse potenzialità della Repubblica popolare agli albori delle riforme economiche anni ’80. Secondo il Financial Times, sono circa un milione i cinesi ad aver tentato fortuna nel continente, attirati dalle condizioni di business più vantaggiose rispetto a quelle offerte oltre la Grande Muraglia, dove l’aumento del costo del lavoro, la sovraccapacità industriale e standard ambientali più stringenti stanno rallentando la crescita economica e falcidiando il settore privato.
L’interesse del gigante asiatico per l’Africa e le sue risorse naturali è cosa nota. Tra il 2000 e il 2014, gli investimenti cinesi nel continente hanno raggiunto il 55% di quanto investito dagli Stati Uniti e la multinazionale di consulenza strategica McKinsey stima che, al ritmo attuale, il sorpasso cinese avverrà entro un decennio. Grazie anche al progetto Nuova Via della Seta, la Cina è in assoluto il partner più attivo nel settore infrastrutturale africano, con una spesa che supera quella di Asian Development Bank, Commissione europea, Banca europea per gli investimenti, International Finance Corporation, Banca mondiale e G7 messi insieme. Ma le cifre accecanti dei finanziamenti statali rischiano di distogliere l’attenzione da una forma di attivismo economico meno appariscente ma altrettanto dirompente.
Secondo McKinsey, nel continente si contano oltre 10mila aziende cinesi, di cui il 90% gestite da privati, con una fetta consistente in Nigeria (920) e Zambia (861). Come spiegava tempo fa sul Washington Post, Deborah Brautigam, con l’intento di replicare il successo di Shenzhen, laboratorio per il capitalismo di Stato, la Cina sta esportando il proprio modello di sviluppo in Africa con l’apertura di zone economiche speciali potenzialmente in grado di elevare il continente da fornitore di commodites a esportatore di prodotti industriali, secondo la traiettoria ascendente seguita dalla Repubblica popolare nelle ultime quattro decadi. E’ questo il caso della “free trade zone” sviluppata nello stato federato di Ogun (a 60 chilometri dalla capitale nigeriana Lagos) dall’azienda statale Power Construction Corporation of China in collaborazione con il governo locale. Secondo stime di Wilson Wu, manager del progetto, nel giro di un ventennio saranno 10mila le aziende private cinesi a delocalizzare nell’area. Oggi sono solo 50.
La rivista finanziaria Caixin spiega che “c’è una differenza sostanziale nella distribuzione dei capitali cinesi in Africa. È più probabile che le aziende statali investano nei settori minerario e dell’edilizia, pari rispettivamente al 25% e 35% dei loro investimenti. Le imprese private, invece, operano prevalentemente nelle industrie manifatturiere e dei servizi. Tanto che su 53 miliardi di dollari attribuibili alle aziende private, ben 19 miliardi sono stati destinati alla produzione industriale”.
Stando a Irene Yuan Sun, partner di McKinsey e autrice di The Next Factory of the World, “gli investimenti cinesi nel manifatturiero sono la migliore speranza per questa generazione. Il coinvolgimento cinese in Africa non riguarda solo gli sforzi guidati dallo stato. Una componente altrettanto se non più rilevante è costituita dalle imprese private, che sono più ad alta intensità di lavoro, localizzano più rapidamente e hanno un impatto economico e sociale maggiore.” Diversi studi accademici dimostrano che almeno due terzi della manodopera impiegata dalle compagnie cinesi risulta reclutata tra la popolazione locale.
Le buone notizie, tuttavia, finiscono qui. La liaison sino-africana non è mai stata e non è tutt’oggi priva di criticità. Le lamentele abbondano da ambo le parti. Se per gli imprenditori cinesi il vero ostacolo risiede nella forza lavoro scarsamente qualificata, abbinata al lassismo e alla corruzione delle autorità locali, per gli africani il divario culturale con i nuovi arrivati si traduce spesso in forme di razzismo e discriminazione.
[Pubblicato su Il Fatto quotdiiano online]
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.