Una ricerca condotta dall’Ong Global Witness nell’arco di due anni dimostra come l’industria afgana delle pietre preziose sia sfuggita dalle mani del governo di Kabul finendo per finanziare i vari gruppi armati locali, i talebani, forse persino l’Isis. E la fetta più ampia di questo export insanguinato arriva in Cina, passando per il Pakistan. Una bella gatta da pelare per il governo di Ashraf Ghani e per la leadership cinese, intenta a cementare la propria posizione nella regione attraverso una serie di progetti infrastrutturali mirati a veicolare simultaneamente sviluppo e sicurezza.
«L’Afghanistan è seduto su depositi di minerali, petrolio e gas di un valore di oltre un trilione di dollari, che, se sviluppati adeguatamente, potrebbero fornire al governo oltre 2 miliardi di dollari di fatturato l’anno. Ma la corruzione dilagante e l’incapacità di garantire la sicurezza dei siti minerari ha spinto i giacimenti nel mirino degli insorti, rendendoli una tra le principali cause dei conflitti e dell’estremismo». E’ quanto emerge dal rapporto di Global Witness, che nello specifico si concentra sulle ricchezze sperperate nel comparto delle pietre preziose. Il paese dell’Asia Meridionale vanta miniere di lapislazzuli antiche di millenni, potenzialmente in grado di risollevare l’Afghanistan dai gironi bassi cui è stato relegato nella classifica stilata in base al Pil dalla World Bank.
L’epicentro del contrabbando è localizzato nella provincia del Badakhstan, dove il settore estrattivo rappresenta una delle poche fonti d’impiego per la popolazione locale. Nella regione, un tempo nota come roccaforte della resistenza contro i talebani, da un paio di anni regna il caos. L’Ong londinese colloca l’escalation all’inizio del 2014, quando le miniere del distretto di Kuran wa Munjan sono state rilevate dal comandante Malek, un ex capo del distretto governativo della polizia locale vicino all’ex ministro degli Interni e della Difesa Bismillah Khan.
Non che le cose andassero molto meglio quando le miniere di lapislazzuli erano ancora controllate da Zulmai Mujadidi, un potente deputato afgano del Badakhshan, il cui fratello Asadullah Mujadidi ricopriva l’incarico di comandate della Mining Protection Force, sfruttando «la sua posizione per estrarre profitti per conto proprio e dei suoi alleati, piuttosto che per quello del governo afgano o della popolazione locale». Global Witness fa un altro nome: quello di Zekria Sawda, presidente della commissione delle Risorse e dell’Ambiente naturale della Camera bassa, che all’epoca gestiva una concessione di tormalina nel Badakhshan e aveva stretti legami con Zulmai Mujadidi. Negando di avere contatti tra i ribelli del Badakhshan, entrambi, Zekria Sawda e Asadullah Mujadidi, hanno puntato il dito contro i loro oppositori politici.
Stando all’Ong, nel 2014 i gruppi armati provinciali hanno intascato una cifra prossima ai 20 milioni di dollari, di cui 1 milione finito nelle mani dei talebani. Per avere un metro di paragone, si consideri che nel 2013 il governo di Kabul ha guadagnato complessivamente la stessa cifra dalle entrate estrattive ripartite su tutto il territorio afgano. Secondo il rapporto, nel corso del tempo la posizione dei barbuti nel contrabbando dei lapislazzuli si è continuata a rafforzare, raggiungendo il 50 per cento delle entrate dirette del settore minerario nella seconda metà del 2016 – lo sorso anno avevano già toccato quota 4 milioni di dollari. Numeri che rendono l’industria mineraria la seconda fonte di proventi per i taliban dopo il narcotraffico.
La situazione ha visto un netto peggioramento da quando, nei primi mesi del 2015, il governo afgano ha formalmente vietato il commercio e l’estrazione delle pietre blu. Alla chiusura della principale scorciatoia attraverso la valle di Faizabad, il commercio illegale è stato dirottato verso i passi dell’Anjuman e del Panjshir, in quella che viene considerata la provincia più sicura del paese.
Tra il 2014 e il 2015, circa 200 milioni di dollari di lapislazzuli estratti nella provincia del Badakhstan hanno preso la strada verso Oriente, transitando attraverso il Pakistan, per poi approdare nelle gioiellerie cinesi. Non capita di rado che i cosiddetti «minerali di conflitto» finiscano oltre la Muraglia grazie alla connivenza delle autorità cinesi lungo le aree di frontiera. E’ quanto accade da anni negli Stati semiautonomi del Myanmar orientale, dove il contrabbando delle risorse naturali viene sfruttato per oliare il conflitto etnico che lacera il Paese dei Pavoni dalla fine del colonialismo britannico.
Nel caso afgano, però, le implicazioni sono preoccupanti anche per Pechino, impegnato a resuscitare le antiche vie commerciali della Via della Seta, dall’Asia Orientale all’Europa. Al momento l’Afghanistan rientra nella Silk Road Economic Belt (il ramo terrestre della One Belt One Road) più nelle parole che nei fatti; il governo cinese ha promesso a Kabul soltanto 100 milioni di dollari, contro i 45 miliardi stanziati in Pakistan e i 31 miliardi in Asia Centrale. Ma l’instabilità dell’Afghanistan – squassato da una interminabile guerra civile – costituisce ugualmente un incognita per la buona riuscita del progetto nel suo insieme, oltre che una minaccia alla sicurezza interna della Repubblica popolare, con cui condivide quasi 93 chilometri di confine. Come riporta Global Witness, – oltre ai taliban – il Badakhshan ospita un piccolo gruppo di miliziani, di varie nazionalità, simpatizzanti dello Stato Islamico: l’Islamic State of Khorasan Province (IS-K), affiliato al Daesh siriano-iracheno. Pare che la sigla non dispiaccia nemmeno agli uiguri radicalizzati dello Xinjiang, la regione autonoma musulmana della Cina occidentale, definita il «Far West» cinese non soltanto per la sua collocazione geografica, ma anche per la «guerra a bassa intensità» da cui viene periodicamente scossa.
Ecco che, mentre Pechino vaglia un maggior coinvolgimento nel «cuore dell’Asia» attraverso piattaforme di dialogo come il Quadrilateral Coordination Group (Afghanistan-Pakistan-Usa-Cina ), la lotta alle gemme illegali porterebbe vantaggi ad ambo le parti: più entrate per Kabul e maggiore stabilità per il gigante della porta accanto. Una strategia rigorosamente «win-win», come piace ripetere fino alla nausea ai leader cinesi.
Di Alessandra Colarizi
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.