La Cina è latina: “Washington è come la Chiesa cattolica, i cinesi sono come i mormoni”: è il paragone eloquente utilizzato da un ministro degli Esteri latinoamericano per descrivere l’approccio pragmatico di Pechino in opposizione agli aut aut ideologici degli Stati Uniti, convinti che gli affari vadano subordinati alla difesa dei valori democratici.
La “trade war” con gli Stati Uniti, la corsa ai materiali critici, ma anche la necessità di trovare nuove opportunità di investimento e assoldare ulteriori partner per portare avanti la riforma dell’ordine mondiale: la Cina ha molte buone motivazioni per guardare all’America Latina. E i numeri confermano come l’interesse sia già tangibile. Complice il clamoroso ritardo di un Occidente restio a concretizzare le annose mezze promesse. Chiedere a Guillermo Lasso, presidente dell’Ecuador: liberale e con un passato da dirigente a Coca Cola, il 15 maggio il leader del centrodestra ha siglato un accordo di libero scambio con Pechino. Non è il solo da quelle parti a rivolgere lo sguardo a Oriente. Cile, Costa Rica, Perù, Paraguay, Uruguay e l’Honduras hanno già siglato trattati analoghi o si apprestano a farlo.
Mentre gli Stati Uniti, la potenza regionale, frenano l’espansione dei commerci citando il mancato rispetto dei diritti umani, la Cina – con circa 500 miliardi di dollari di interscambio – è ormai il secondo partner commerciale per tutta l’America Latina dopo Washington. Nel Sud America è già il primo. Soia, grano, mais, cotone, tabacco e carne bovina: sono alcuni dei 106 prodotti statunitensi a cui Pechino nel 2018 ha applicato tariffe fino al 25% in rappresaglia ai dazi imposti da Donald Trump sulla tecnologia cinese e che oggi guidano la lista delle esportazioni dall’America Latina verso la Repubblica popolare. Più merci scambiate vuol dire anche maggiori occasioni per effettuare pagamenti in valuta locale, tanto che recentemente lo yuan, la moneta cinese, ha superato l’euro come seconda valuta di riserva estera del Brasile.
Poi ci sono gli investimenti. Oltre venti paesi dell’America Latina hanno aderito alla Belt and Road Initiative (BRI), il progetto lanciato da Pechino nel 2013 per costruire reti di trasporto in giro per il mondo. Dal 2005 al 2022 le banche cinesi hanno concesso prestiti ad aziende e governi regionali per oltre 136 miliardi di dollari. Dopo un periodo di assestamento, l’ultimo anno è stato contraddistinto da un ritorno ai finanziamenti su larga scala, con un crescente interesse per le rinnovabili anziché per la cara e vecchia industria petrolifera. Seguono tecnologia digitale, scienze e tecnologie agrarie, e comunicazioni satellitari: la Cina cementa la propria presenza nel continente e lo fa intercettando abilmente le aspirazioni dei governi in carica.
Gli avvertimenti americani sono serviti a poco: Huawei – bandita (completamente o in parte) dal 5G di una decina di paesi europei – secondo il Center for Latin America and Latino Studies avrà “verosimilmente” accesso alla rete di Colombia, Venezuela, Cile, Argentina e Uruguay. Forse anche del Brasile, dopo l’uscita di scena del sinoscettico Jair Bolsonaro e la nomina a presidente di Lula da Silva, che ha personalmente perlustrato un centro di ricerca Huawei durante la visita a Shanghai dello scorso aprile.
La regione è sempre più laboratorio per l’internazionalizzazione delle aziende tecnologiche cinesi: in Colombia, quella di Didi è stata l’app di trasporto più scaricata del 2020, mentre lo scorso luglio il colosso cinese delle auto elettriche BYD ha annunciato che investirà 624 milioni di dollari in Brasile per costruire un nuovo complesso industriale, il suo primo impianto al di fuori dell’Asia. La Cina raccoglie anche quanto lasciato dall’Occidente. Nella lista della spesa figurano dieci progetti idroelettrici in Brasile abbandonati dall’americana Duke Energy nel 2016, nonché quote di partecipazione nel colosso del litio cileno SQM due anni dopo. Ci vedevano lungo i cinesi.
“Washington è come la Chiesa cattolica, i cinesi sono come i mormoni”: è il paragone eloquente utilizzato da un ministro degli Esteri latinoamericano per descrivere l’approccio pragmatico di Pechino in opposizione agli aut aut ideologici degli Stati Uniti, convinti che gli affari vadano subordinati alla difesa dei valori democratici. CONTINUA A LEGGERE SU MISSIONI CONSOLATA
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.