Scriveva bene quel viaggiatore sedentario e mobilissimo che fu Giorgio Manganelli, di cui Adelphi ha da poco ristampato Cina e altri orienti, capolavoro della letteratura di viaggio divenuto raro da quasi un quarantennio e ora ampliato e arricchito dalla curatela di Salvatore Nigro nella nuova edizione.
In fondo siamo già stati tutti in Cina da bambini. Continente della meraviglia, proiezione immateriale e luminescente di una lanterna magica, fantasmagoria fumosa e diavolesca, la Cina è da secoli un pezzo dell’immaginario popolare, tanto familiare quanto ignoto. Sequenza di personaggi imbalsamati nell’ambra della storia, di cibo addomesticato e spurio, la Cina, il Centro del Mondo, è lo spazio eletto in cui “il popolare” è diventato inesorabilmente “il pop”.
Scriveva bene quel viaggiatore sedentario e mobilissimo che fu Giorgio Manganelli, di cui Adelphi ha da poco ristampato Cina e altri orienti – capolavoro della letteratura di viaggio divenuto raro da quasi un quarantennio e ora ampliato e arricchito dalla curatela di Salvatore Nigro nella nuova edizione -, quando raccontava la “sua” Cina. I cassetti della memoria sono stracolmi di reliquie sinofile, «i corrierini, i film, certe slabbrate e decomposte memorie di operette, di canzoni alla maniera orientale». Categorie di carta, a uso e consumo dei lettori della nuova massa che attraverso meravigliate semplificazioni, falsificavano l’immagine di una Cina diventata improvvisamente contemporanea.
Eppure, secondo Manganelli, «ogni viaggio è un simbolo, un’iniziazione», oltre che un alibi. In verità al grande Manga gli aspetti materiali della transizione non lo interessavano, ci mancherebbe. Né lo assillava il vizio occidentale della scoperta, della ricerca a tutti i costi della novità. Viaggiare per poterne scrivere: questo conta.
Tempo e spazio sono ormai coordinate anacronistiche, in ultima analisi inutili. Manganelli crea la Cina mentre ne scrive, facendone un itinerario dell’immaginazione. In fondo la Cina stessa è un’immensa scrittura, una calligrafia dell’anima. E così, calato a corpo morto nella fiera irresponsabilità nei confronti di una lunga quanto estenuante tradizione di viaggi scritti, Manganelli si auto elegge, alla maniera di Gauguin, «pittore della domenica».
Basta con gli esploratori e gli scopritori di Americhe inedite e amarissime, basta con i teoremi orfani di una dimostrazione, fine dei programmi di viaggio, fine della storia. Il modello di Manganelli, la sua lente sulla Cina dei primi anni Settanta, è frutto di dichiarata impostura e di capriccio. Di fronte al caos ordinato del mondo cinese, più utile di altro gli sembra la propria disorganica ispirazione: «viaggiare comporta una serie di momenti amorosi, di vagheggiamenti, di scoperte innamorative: una carriera di languori, un’enciclopedia, magari arruffata, di occhiate fatali».
Non è un caso che, al suo arrivo, l’anti-viaggiatore Manganelli si avveda subito che la Cina e i cinesi sono un’altra cosa. Essi sono “scritti”, non hanno forma di figura ma di “idea”. Pechino, città in foggia di ideogramma, è un unico, densissimo crogiolo di simboli, nel quale un immobile principio di mutazione non consente alla memoria alcuna forma d’orientamento. L’essenza nordica della capitale proviene proprio da ciò che gli ideogrammi del suo nome disegnano, «città del nord», e poco importa che essa sia «allo stesso parallelo di Istanbul».
Il viaggiatore analfabeta del cinese può certo riconoscere le insegne dei negozi perché esse rappresentano il disegno del loro commercio, ma non si tratta di semplici “segnali”. I simboli esposti dagli empori lambiscono la sfera del subliminale, e così ai caratteri ideogrammatici si associano suggestioni, procedimenti analogici che trascendono la realtà. Al viaggiatore non resta che prenderne atto e lasciarsene sedurre, fino a quando non sarà più possibile distinguere il segno dal vero.
Infine, ecco i cinesi, che «vestiti uguali sono uno sfondo neutro, qualcosa che “non dice nulla” su colui che indossa». C’è poco da fare: esiste uno stile cinese che rende ancor più omogenea l’immagine di quel popolo. È un modo di fare «alto, elegante, pieno di agio e discrezione» che ha cancellato «l’onta del rango, dell’obbedienza» e, soprattutto, dell’apparenza, la stessa di cui sono schiavi gli occidentali, pur nella loro religione pagana dell’individualità.
Dulcis in fundo l’onnipresente cucina, definita con aristocratico sentimento della distanza un «effetto speciale», così come lo stesso viso glabro dei cinesi, «capolavoro dell’artificiale» che rimanda all’immagine di una bambola.
La ricerca di Manganelli si esplica molto poco in contesti “alti” come l’arte o l’architettura, bensì predilige gli ambiti domestici, ovvero gli aspetti che, originandosi dalla vita quotidiana, possono diventare oggetto di un’astrazione più ampia, il simbolo di una dimensione collettiva, infine di un’identità culturale. Il retaggio cinese è costituito maggiormente da fenomeni che riflettono assenza, astrazione modulare, proprio come le tessere di giada che compongono la veste mortuaria di un antico principe, e che sole sono sopravvissute, involucro vuoto appunto, lasciando ai posteri la figura di questo automa inerte che fa esclamare il viaggiatore: «il principe è un nulla vestito di giada».
Se anche non fosse stato necessario recarsi in Cina per parlare della Cina, una volta assunta la sostanza di quella cultura, di quei luoghi, una volta ridotta la sua specifica essenza nei termini noti del proprio linguaggio, essa rimane – così scrive Manganelli – indelebile: «Sembra impossibile uscire da questo luogo, dal tempo oscuro e segreto, questo luogo che ci insegue e trattiene con i suoi enigmi, i suoi giochi, la sua arcaica eleganza».
*Danilo Soscia è nato a Formia nel 1979. Studioso di letteratura di viaggio, vive e lavora a Pisa. Ha esordito nella narrativa nel 2008 con Condòmino (Manni) e ha curato il volume In Cina. Il Grand Tour degli italiani verso il Centro del Mondo 1904-1999 (Ets). È stato anche redattore del quotidiano Pisanotizie.it.