Martedì 29 marzo è uscito “La Cina è già qui“, il nuovo saggio di Giada Messetti, già autrice sempre per Mondadori del fortunato “Nella testa del Dragone” nel 2020. Libro quanto mai puntuale per provare a capire come pensa Pechino, in un momento di grandi tensioni globali.
Lunedì 4 aprile alle 0re 18,30 ci sarà la prima presentazione ufficiale a Milano presso la libreria Rizzoli di Galleria Vittorio Emanuele II, 11/12. Per prenotare il proprio accredito inviare una mail a eventi.libreriarizzoli@mondadori.it con nome/cognome/numero di telefono.
Qui di seguito pubblichiamo l’introduzione, per gentile concessione di Mondadori.
La Cina è l’indispensabile Altro che l’Occidente
deve incontrare per divenire veramente cosciente
del profilo e dei limiti del suo Io culturale.
SIMON LEYS, L’umore, l’onore, l’orrore
Ogni tanto mi riaffiora nella mente un episodio di alcuni anni fa, quando ero una studentessa della facoltà di Lingue e Civiltà orientali all’università di Venezia. Ogni settimana frequentavo sei ore di lettorato cinese e il professor Xu, un signore in carne, con i capelli grigi e gli occhi sempre sorridenti, insegnava a noi matricole come si leggono i caratteri e ci teneva per mano mentre improvvisavamo i nostri primi e sgangheratissimi dialoghi in mandarino. Una mattina, a fine lezione, un compagno di corso si è alzato in piedi e dal banco si è rivolto al docente chiedendogli a voce alta: «Prof, ma è vero che in Cina mangiate i cani?». Mi ricordo di aver provato un po’ di disagio per quella provocazione ma anche un misto di orrore e disgusto
all’idea che si potessero davvero mangiare i migliori amici dell’uomo. Il professor Xu ha sorriso e mentre continuava a raccogliere i suoi libri e appunti dalla cattedra ha risposto serafico: «Sì, è vero, mangiamo i cani». Poi ha fatto una lunga pausa, ha alzato la testa, ha guardato il mio compagno dritto negli occhi e ha aggiunto: «Però noi non mangiamo i cavalli». Per me è stata una rivelazione.
Mi sono sentita una piccola e stupida ragazza arrogante: avevo subito giudicato, ma in realtà non avevo gli elementi per farlo. Mi ero fermata alla prima impressione, senza minimamente immaginare che potesse esistere un altro risvolto di quella mia verità, un’altra prospettiva da cui guardare il fatto. Negli anni trascorsi a Pechino, mi è successo infinite volte di trovarmi in situazioni simili. Con la Cina è inevitabile avere un’immediata reazione giudicante. Eppure, più studiavo quel Paese e più i miei punti esclamativi si trasformavano in enormi punti di domanda. Le mie certezze granitiche lasciavano spazio a nuove curiosità e alla voglia di nuovi approfondimenti.
Del Dragone si parla ormai tutti i giorni. È un fattore positivo: ci riferiamo alla seconda potenza mondiale ed è importante avere consapevolezza che il mondo come l’abbiamo conosciuto finora sta evolvendo e cambiando. Purtroppo, tuttavia, l’argomento viene spesso affrontato in modo superficiale e il racconto dei media, da questo punto di vista, non aiuta. Capita di frequente che le notizie si costruiscano attorno a tesi preconcette o vengano fornite soltanto a metà, finendo quindi solo per rassicurare e confermare idee, spesso negative, che già possediamo, senza fornire elementi utili a capire le mille sfaccettature dell’incontro con un mondo così diverso dal nostro.
Le lenti che indossiamo hanno inevitabilmente i colori della nostra formazione culturale, ma fare affidamento soltanto su di esse comporta il rischio di cadere nella sterile semplificazione di un Dragone in bianco e nero: o come il male assoluto o come il posto più efficiente e sbalorditivo del mondo. Superfluo sottolineare quanto entrambe le versioni ci portino fuori strada.
La Cina rappresenta lo sconosciuto, il lontano, l’altro per antonomasia. Spaventa, certo. Tuttavia, può essere anche una grande occasione per esercitarsi in un complicato e faticoso esercizio di immedesimazione. Ci pone di fronte a comportamenti e modi di agire che non comprendiamo
o non condividiamo, ci spiazza e destabilizza, ma proprio per questo può insegnare molto, chiaramente solo se si ha voglia di imparare e di mettersi in gioco.
Come sostiene il sinologo francese François Jullien è ormai tempo di cominciare a «pensare la dimensione culturale non più in termini di differenze (che definiscono un’essenza), ma in termini di scarti (divari) che aprono altrettante risorse, ovvero in termini di fecondità. Lo scarto si rivela non come una figura di identificazione, ma di esplorazione, che fa emergere un altro possibile, non produce un ordine ma un disordine».
La Cina è già qui vuole appunto generare un po’ di disordine virtuoso, sparigliare sul tavolo le convinzioni più radicate, tentare di restituire qualche piccolo frammento della complessità che la Cina incarna e ci pone davanti. Non invita a rinunciare alla nostra identità né ai nostri valori, ma a sospendere per un attimo l’abitudine istintiva di giudicare con categorie occidentali comportamenti e modi di sentire che viaggiano su altri binari.
Kaiser Kuo, il poliedrico ex manager del motore di ricerca Baidu, studioso e creatore di «Sinica», uno dei migliori podcast sulla Cina in circolazione, in un discorso tenuto nel 2021 a un evento del Comitato nazionale per le relazioni Cina-Usa, ha definito questo approccio «empatia informata».
Kuo ricorda come l’essere umano sia portato per natura a utilizzare la capacità di sapere come si sentono gli altri in determinate situazioni. Questa forma di identificazione, tuttavia, avviene spontaneamente solo quando esistono dei presupposti condivisi: per esempio, se si parla la stessa lingua, se si hanno in comune significative esperienze politiche, filosofiche o religiose.
Nel caso in cui ci si imbatta in un Paese come la Cina, che ha un background non solo culturale, ma anche storico e valoriale del tutto diverso, bisogna, però, fare un passo in più, compiere lo sforzo di conoscere meglio la sua esperienza, provando ad avere un’idea più chiara della sua visione del mondo. Solo capendo come pensano i cinesi e accettando la sfida di non tralasciare a priori la loro prospettiva (anche se va sempre tenuto a mente che i punti di vista cinesi sono molteplici), è possibile costruire un vero rapporto di incontro e di dialogo.
Kuo sottolinea inoltre che «empatia» non significa per forza «simpatia», sentimento che implica una condivisione più o meno profonda di reciproche convinzioni. L’empatia ci mantiene un po’ più distanti: non è necessario avere le stesse prospettive, gli stessi valori dell’altro, che tuttavia
siamo in grado di immaginare.
Nell’attuale scenario di cambiamenti epocali, divisioni, fratture e immense sfide comuni, arrivare a una comprensione multidimensionale di questo Paese dalla civiltà millenaria, sempre più centrale nelle nostre vite, è un’operazione che non ha più senso posticipare. Questo libro è un tentativo di fornire spunti utili all’esplorazione di quello «scarto» tra noi e la Cina e iniziare così il faticoso esercizio verso un’empatia consapevole.
Assumendosi il rischio di riassumere e semplificare, La Cina è già qui traccia la mappa essenziale di un sistema filosofico e culturale alieno rispetto al nostro e prova a offrire alcuni strumenti che aumentino la conoscenza reciproca e aiutino a cogliere le differenze che ci separano, oltre i luoghi comuni. Dal fascino della lingua e della scrittura alla concezione cinese del vivere sociale e del passato, dal potere «con caratteristiche cinesi» ai meccanismi che guidano e determinano la politica estera, dal pensiero olistico fino alla spiegazione del perché in Cina il concetto di «copia» non ha una valenza negativa come da noi.
L’invito, prima di cominciare a leggere, è quello di abbracciare lo spirito del viaggiatore che parte con la voglia di scoprire un’altra cultura e di calarsi in un panorama inedito che tiene insieme contraddizioni, storture, paradossi ed elementi tradizionali millenari combinati con la modernità più estrema. Un panorama multiforme come quello in cui è immersa la China Girl dell’artista cinese Xu De Qi, che ci guarda dalla copertina.