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La Cina è ancora un paese in via di sviluppo?

In Cina, Relazioni Internazionali by Francesco Mattogno

Durante la COP29 di Baku si è discusso molto se continuare a considerare alcuni Stati come “paesi in via di sviluppo”, cioè formalmente idonei a ricevere i fondi per il clima e quindi non obbligati a partecipare ai finanziamenti. Tra questi ci sono le monarchie del Golfo, l’India, la Corea del Sud e, soprattutto, la Cina. Dalla newsletter del 24 novembre dedicata ai sottoscrittori di China Files (clicca qui per sapere come sostenerci e ricevere i contenuti aggiuntivi)

«La Cina e l’India non possono essere inserite nella stessa categoria della Nigeria e degli altri paesi africani. Si stanno ancora sviluppando, ma più velocemente di questi Stati, quindi dovrebbero contribuire [ai finanziamenti climatici per i paesi in via di sviluppo]». Lo ha detto il 19 novembre al Guardian il ministro dell’Ambiente nigeriano, Balarabe Abbas Lawal. Non sono state dichiarazioni banali, visto che sono arrivate mentre alla COP29 di Baku, in Azerbaigian, si era ancora in una fase molto preliminare delle trattative per decidere quanti fondi i paesi ricchi avrebbero dovuto destinare alla transizione energetica dei paesi in via di sviluppo.

Alla fine, dopo oltre due settimane di intense negoziazioni, si è deciso che i paesi in via di sviluppo riceveranno dai paesi ricchi una quota crescente di aiuti climatici, che dovrà arrivare a 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035. È una cifra che dunque potrebbe essere raggiunta solo tra undici anni, e che gli esperti del settore e i rappresentanti dei paesi più poveri ritengono largamente insufficiente (si parlava di arrivare ad almeno 1.300 miliardi di dollari).

COP29 e finanza climatica

La definizione di una cifra annuale da assegnare ai finanziamenti per il clima (“New collective quantified goal on climate finance”, NCQG) è stato il tema principale della COP29, la ventinovesima Conferenza delle Parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) che si è tenuta dall’11 al 24 novembre. Di finanza climatica si discute regolarmente dalla COP15 di Copenaghen del 2009, durante la quale si decise che i paesi ricchi avrebbero dovuto destinare ai paesi in via di sviluppo 100 miliardi di dollari all’anno per supportarne la transizione energetica, insieme ad altri interventi di mitigazione, adattamento e riparazione dei danni causati dai cambiamenti climatici (una cifra poi raggiunta concretamente solo nel 2022).

Il piano stabilito alla COP15 prevedeva però una data di scadenza: il 2025. Entro quest’anno, quindi, le parti avrebbero dovuto istituire un altro programma di finanziamenti per gli Stati più poveri, il NCQG. Si è per questo tornati a discutere di quali paesi si possono considerare sviluppati e quali invece in via di sviluppo, quest’ultima categoria controversa in cui rientra tuttora la Cina, tra le proteste del mondo occidentale. «Se sei in grado di andare sulla luna, come nel caso della Cina, allora dovresti fare di più riguardo l’azione climatica», aveva dichiarato a Bloomberg il commissario per il Clima dell’Unione Europea, Wopke Hoekstra, lo scorso settembre.

Ma se i paesi ricchi criticano da tempo l’appartenenza della Repubblica popolare alla categoria dei paesi in via di sviluppo, il fatto che a metterla in dubbio sia stato un funzionario nigeriano (seguito poi dall’omologa colombiana Susana Muhamad e da vari delegati africani) ha rappresentato una novità. Una piccola crepa all’interno di un gruppo di paesi che ha sempre fatto fronte comune per considerare la Cina una di loro, come successo infine anche alla COP29.

Tecnicismi

La Cina non è l’unico Stato per cui oggi la definizione di paese in via di sviluppo è diventata discutibile. Oltre alla già citata India, vi rientrano ad esempio anche Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Corea del Sud. Quello della Repubblica popolare – seconda maggiore economia del mondo, da tempo diventata a tutti gli effetti una potenza tecnologica e militare – resta comunque il caso più controverso, non solo per quanto riguarda la diplomazia climatica. Essere considerati un paese in via di sviluppo porta con sé una serie di agevolazioni all’interno di quasi tutte le agenzie dell’ONU e di altri organismi internazionali.

Pechino dunque si tiene ben stretta questa classificazione, che ha delle basi legali. Secondo la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, che classificano gli Stati in relazione alla quota di PIL pro-capite e altri criteri qualitativi, ma non in base alla dimensione della loro economia, la Cina rientra ancora pienamente tra i paesi in via di sviluppo, come era stato deciso da tutte le parti coinvolte anche al momento della firma dell’UNFCCC del 1992. Per i critici si tratta però di una classificazione ormai obsoleta, risalente a un mondo che non esiste più.

Le conseguenze climatiche per la Cina

Sul piano climatico, fare parte dei paesi in via di sviluppo esonera Pechino dall’obbligo di presentare dei piani di riduzione delle emissioni di gas serra e dall’aiutare economicamente i paesi più poveri nella transizione, come previsto dall’accordo di Parigi del 2015. Tecnicamente, inoltre, la Repubblica popolare sarebbe idonea a ricevere i finanziamenti dei paesi sviluppati. Tutte condizioni che valgono praticamente solo sulla carta, visto che la Cina, per molti aspetti, si comporta di fatto come un paese ricco.

Negli anni Pechino ha scelto di non riscuotere alcun tipo di finanziamento climatico, ha presentato diversi piani di riduzione delle emissioni e ha investito decine di miliardi di dollari nelle infrastrutture energetiche rinnovabili dei paesi più poveri attraverso vari accordi bilaterali, all’interno di quella che il governo cinese definisce “cooperazione Sud-Sud”. Nonostante questo, la Cina non ha intenzione di uscire dal gruppo dei paesi considerati in via di sviluppo, per due ragioni principali.

La prima, sul fronte della diplomazia climatica, è per riservarsi più ampi margini di manovra nella gestione degli investimenti esteri legati alla transizione energetica. Non essendo obbligata a contribuire nell’ambito dei piani creati alle COP, Pechino può decidere quanto e come finanziare i paesi del Sud Globale, senza dover rispettare gli standard di trasparenza richiesti dall’UNFCCC. Una condizione che permette inoltre alla Cina di rafforzare le proprie relazioni diplomatiche con i paesi in via di sviluppo, con cui può trattare singolarmente. Se è vero che dal 2013 la Repubblica popolare ha investito oltre 40 miliardi di dollari nella finanza climatica destinata agli Stati del Sud del mondo, però, la grande maggioranza dei finanziamenti sono stati elargiti sotto forma di prestiti e non di sovvenzioni a fondo perduto, come nel caso dei piani definiti alle COP.

Un’appartenenza politica

La seconda ragione è di natura politica. In questi anni il presidente cinese Xi Jinping ha più volte dichiarato che la Cina «sarà per sempre un paese in via di sviluppo»: visto l’orizzonte proposto, astratto e illimitato, la sua non può essere una valutazione di tipo economico. Al di là dei tecnicismi, legati al PIL pro-capite e alla crescita più lenta dell’ovest del paese, Pechino si sente legata a una definizione ben precisa di paese in via di sviluppo, quella indicata dalla prima Conferenza ONU sullo Sviluppo e il Commercio (UNCTAD I) del 1964. Nel documento finale della conferenza si intendono infatti come “paesi in via di sviluppo” gli Stati asiatici, africani e dell’America latina che hanno raggiunto la liberazione nazionale dopo la seconda guerra mondiale e che da allora hanno intrapreso un percorso di sviluppo autonomo.

Per Pechino, che nel 2023 ha anche ricalibrato la sua retorica sul concetto di Sud Globale per renderlo più conforme a quello di paese in via di sviluppo, l’appartenenza a questi due gruppi ha dunque un marcato significato politico: l’etichetta serve alla Cina per legittimare la sua volontà di porsi alla guida del Sud Globale, ruolo dal quale può ambire alla costruzione di un nuovo ordine internazionale. La sua forza revisionista verrebbe meno se si unisse formalmente agli Stati occidentali nel gruppo dei paesi sviluppati.

Per quanto ancora condivisa dalla stragrande maggioranza dei paesi del G77 (il gruppo di Stati rappresentanti del Sud Globale all’interno delle Nazioni Unite), dal punto di vista climatico la posizione cinese si sta facendo sempre più insostenibile. Pur vantando ancora un basso livello di emissioni pro-capite, e investendo più di ogni altro paese nelle rinnovabili, la Cina è oggi il maggiore emettitore di gas serra al mondo e nel 2023 ha superato l’Europa come secondo storico emettitore globale di CO2, dietro solo agli Stati Uniti.

Il possibile fallimento della COP29 e del nuovo piano sulla finanza climatica, in bilico fino all’ultimo, passava anche da questa contraddizione, e ci si chiede per quanto ancora la Repubblica popolare potrà continuare a definirsi un paese in via di sviluppo, almeno nel contesto delle COP.

A cura di Francesco Mattogno