Stiamo per scoprire la quinta generazione di leader. La posta in palio è altissima: il comando politico, militare e quanto ne conseguirà da un punto di vista economico per il paese e – che lo si voglia o meno – anche per l’Occidente. Dove è arrivata e dove andrà la Cina. L’analisi di China Files.
“I monopoli sono il naturale nemico dell’economia di mercato”. E’ la frase iniziale del report di una rivista cinese, Caixin, su quelle che “dovrebbero” essere le riforme che la Cina dovrà intraprendere. Benvenuti nella Cina che si prepara al ricambio politico, quindi. L’8 novembre comincia a Pechino il diciottesimo congresso del Partito Comunista cinese: evento con i suoi riti e misteri e che segna il passaggio politico più importante per il Dragone. Dalla quarta generazione di leader che ha portato la Cina a viaggiare a medie economiche rilevanti, sviluppando di fatto tutto il potenziale produttivo, ma che allo stesso tempo ha represso senza mezzi termini critiche interne, si passa alla quinta generazione. Dai tecnocrati, si passa ad una generazione di politici cresciuta tra Master all’estero e studi economici e umanistici. La posta in palio è altissima: il comando politico, militare e quanto ne conseguirà da un punto di vista economico per il paese e – che lo si voglia o meno – anche per l’Occidente.
Sono necessarie alcune premesse, ed un tuffo nelle ultime beghe e rumors, per comprendere appieno il passaggio epocale della Cina. Innanzitutto, quando si parla di cambiamento in Cina, specie sui media nostrani, si parla di generiche “riforme”. E’ interessante notare come sulla Cina la proiezione dell’immaginario occidentale sia difficile da estirpare: le riforme che infatti abbiamo in mente noi occidentali, di carattere per lo più politiche, non sono per niente all’ordine del giorno dei politici locali, da tempo spesi ad accomunare il concetto di politica, con quello di “economia”. Si tratta di uno scarto quantico: anche lo stesso presidente in pectore Xi Jinping, ancora enigmatico nella sua proposta globale, pur essendo stato molte volte pronto a parlare di riforme politiche, si è sempre limitato a discutere di “visione e guida collettiva” del paese e quella che gli accademici cinesi chiamano “inner party democracy”. Se insomma si parla di democrazia in Cina, tanto per placare gli animi dei “democratici” occidentali, è riferito all’interno del Partito e non come eventuale manovra pronta a cambiare la guida del partito unico in Cina. Compiendo questo passo è necessario addentrarsi nelle nubi, ultimamente piuttosto dense, della politica locale.
Fazioni o imperi economici?
Quando nel 2009 in Cina si cominciò a parlare di quella che oggi passa alla storia come “nuova sinistra”, accovacciata nella quasi introvabile mini libreria Utopia a Pechino, sembrò ai nostri occhi come il consueto movimento grass roots, di come ce ne sono tanti in Cina, nel sottobosco intellettuale e talvolta con qualche aggancio ad accademici e funzionari. Invece quando Bo Xilai, leader di Chongqing, seppe raccogliere attorno a sé quel movimento, venne subito percepito un cambiamento nel modo di leggere le evoluzioni del PCC. Se infatti siamo sempre stati abituati a leggere la vita interna del Partito attraverso la divisione tra “principini” e “tuanpai”, ovvero gli appartenenti alla Lega dei Giovani Comunisti, Bo Xilai di fatto sparigliò le carte. Conseguenza: si formò una sinistra neo maoista, i principini si diramarono in più correnti, vennero fuori i “liberali”, appoggiati sulle istanze del premier Wen Jiabao.
In fretta capimmo che la Cina era cambiata anche a livello politico e che le lenti usate per la sua lettura non erano più valide: non più due fazioni, ma tante. E non solo: perché ogni gruppo o lobby, si distingueva dagli altri, sempre meno per le proposte politiche, quanto per le istanze più economiche. Ed anche in questi casi, come dimostra lo scoop di Bloomberg sulle ricchezze della famiglia di Xi e quelle del New York Times su quelle di Wen, mettevano sul piatto un ulteriore componente: le fazioni in Cina ormai seguono peripli economici finanziari, con uno substrato di legame solidaristico e famigliare che poco ha a che fare con proposte politiche diverse. Nessuno, ad esempio, mette in discussione il ruolo del Partito. In questo marasma, che ha dato vita ad una lotta “quasi” pubblica senza precedenti, potrebbe emergere un Ufficio Politico composto da solo sette persone, anziché nove, sintomo di un mancato compromesso tra le varie forze e segnale, pare, della vittoria di un’ala più conservatrice, meno disposta a modificare un modello, complesso e complicato, basato sul pesante intervento statale nell’economia cinese.
Il dilemma delle SOE e la corporate governance invocata
Nel frastagliato humus politico cinese, sono però emerse due tendenze trasversali, riassumibili in uno scontro aperto tra chi sostiene le grandi aziende di stato e chi invece, alla stregua di novelli “Chicago Boys a Pechino” spinge per liberalizzazioni in molti settori. Secondo dati ufficiali ripresi da Reuters – le State-owned enterprise (Soe) pesano ancora per oltre la metà della produzione e dell’occupazione nazionale in Cina. Uno dei principali esponenti di chi chiede riforme è stato Wen Jiabao, che più volte ha tuonato contro le banche e i monopoli, creando anche una zona finanziaria autonoma a Wenzhou, i cui risultati però devono ancora farsi attendere. Dall’altro lato però c’è una sacca di resistenza molto dura da parte di chi sulle industrie di stato ha campato e si è arricchito. Ad esempio Zhou Yongkang, leader della sicurezza che ha in mano, di fatto, il petrolio nazionale o Liu Zhenya, Ceo della State Grid Corporation, la più grande utility dell’energia elettrica del mondo con un milione e seicentomila dipendenti, e in grado di distribuire energia a un miliardo e vari milioni di persone e che copre il novanta per cento del territorio cinese. Secondo quanto riportato da Bloomberg, Liu di recente ha colto l’occasione di un blackout che ha afflitto l’India per convocare una conferenza stampa e affermare che in Cina tutto funziona proprio grazie all’attenzione nei confronti del “pubblico” da parte dell’azienda che amministra e, più in generale, da parte delle grandi imprese di Stato.
Nell’ultima ondata di riforme delle aziende di stato negli anni Novanta, vennero istituite società per azioni a partecipazione statale e molte sono state quotate in borsa. Le aziende di stato subirono un cambiamento radicale, passando da grosse perdite a grandi profitti. Tuttavia, gli studi di economisti cinesi, dimostrano che i profitti delle aziende di Stato “provengono principalmente da politiche favorevoli di cui godono per ottenere terreni, prestiti, sussidi governativi e altri vantaggi”, ha scritto Caixin. Se si dovessero escludere questi fattori, allora i libri delle aziende di Stato di molti sarebbe in rosso.
La prossima tornata di riforme delle aziende di stato – stando alle volontà dei “liberali” – dovrebbe rivolgersi in tre direzioni: le Soe dovrebbero ritirarsi dal settore immobiliare e altri settori competitivi, ed essere separati dal governo. In particolare, i servizi di organizzazione del partito dovrebbero “rinunciare al loro diritto di nominare chi gestisce le aziende di stato e il loro consiglio di amministrazione, annullare la nomina dei dirigenti imposte dal Partito e assumere manager professionisti”. E in terzo luogo, dovrebbero “contrastare la corruzione e i benefici che i suoi leader ancora oggi godono”.
Sinopec ad esempio: Chen Tonghai, ex presidente del gigante petrolifero, aveva una spesa giornaliera di 40mila yuan per le “attività commerciali”, oltre ad esserci stati numerosi scandali che coinvolgono Sinopec e l’acquisto di “lampadari costosi, liquori e così via, ognuno dei quali ha rivelato la corruzione delle aziende di Stato”. Nel 2008, i dipendenti delle aziende statali monopolizzate – energia, elettricità, telecomunicazioni e tabacco – rappresentavano solo l’8 per cento dell’occupazione totale nazionale, mentre i loro stipendi pesavano per il 50 per cento del paese intero. Le “aziende di Stato devono smettere di servire come braccio amministrativo, smettere di godere di monopoli di mercato e introdurre veramente i concetti di corporate governance”.
Lo scontro è aperto, quindi, con un dato importante da considerare. Attualmente nel comitato centrale del Partito ci sono infatti ventitrè tra amministratori delegati e presidenti di grandi Soe. Ed ecco l’importanza del Congresso: le nomine infatti non saranno solo apicali, ma sulla base di chi guadagnerà scranni rilevanti, a cascata, seguiranno altre nomine. Se l’equilibrio cambia, la Cina potrebbe riservare alcune sorprese inaspettate, come sperano quelli di Caixin, che come prima riforma chiedono quella fiscale delle tasse e come seconda un intervento pesante, in grado di rendere il mercato cinese più libero. Uno strato sociale del paese, intellettuali, economisti e funzionari, vogliono questa di libertà: quella economica e del mercato.
Se la Cina cresce al 7,4 per cento, cifre comunque impensabili dalle nostre parti, rallentando il suo obiettivo all’8,5 per cento, del resto, è anche perché la crisi europea ha messo di fatto in ambasce il suo modello basato sull’export. Con uno stato che non sembra in grado, adesso, nonostante gli sforzi del premier in pectore Li Keqiang, di sviluppare un mercato interno capace di reggere le perdite dell’export, i “liberali” potrebbe avere di fronte un terreno fertile. Sempre che il Partito sappia reggere il deal non scritto, determinato da Deng: “arricchitevi e fidatevi noi, che pensiamo a tutto il resto”.
Le grane sociali
Sì, perché in realtà ad arricchirsi sono sempre gli stessi, all’occhio del cinese medio. E la cosiddetta classe media cinese, in procinto di crescere, sembra determinata a farsi sentire, spingendo su traiettorie che appaiono “consentite” proprio dallo scontro in atto. Se la possibilità di arricchirsi fosse vera per tutti, questo il ragionamento, non ci sarebbe nessun problema: i cinesi sono pratici e sono abituati ad operare le teorie e le istanze per migliori per arrivare ad un risultato voluto. Se però salta questa possibilità, cominciamo a diventare importanti istanze che prima non lo erano. Questa è un’altra sfida del Partito che si rinnova: “tenere” a livello di scontro sociale. E che la Cina non diventi una polveriera sociale, bando alle ciance, conviene a tutti, Europa e Usa compresi.
E l’ambito nel quale ultimamente sembrano svilupparsi maggiori problemi è quello che riguarda la qualità della vita, con attenzione particolare all’ambiente. Lo scorso luglio era toccato agli abitanti di Shifeng bloccare i lavori di una fabbrica di rame. Prima ancora era toccato a Dalian, nord est cinese, portare allo spostamento di un impianto petrolchimico. A giugno mille persone riuscirono a fermare un inceneritore a Songjiang, vicino Shanghai, mentre lo scorso anno era toccato a settembre ad un’azienda del ramo dell’energia solare, chiusa a Jiaxing – sempre vicino Shanghai- dopo che alcuni dimostranti avevano protestato contro alcuni elementi chimici utilizzati durante il processo manifatturiero. A dicembre 2011 invece, circa 30mila persone hanno marciato per bloccare la costruzione di una fabbrica a carbone a Haimen, vicino ad Hong Kong. Le proteste, infine, hanno visto nascere una nuova forza, quella dei “nati negli anni 90” supportata anche da intellettuali e dal web e capaci di caricarsi sulle spalle le battaglie ambientaliste del paese, che stando ai dati precedenti, rischiano di diventare un nuovo terreno di scontro tra potere politico e cittadinanza.
L’ultimo episodio qualche settimana fa a Ningbo, dove al seguito di proteste, è stato deciso di bloccare l’ampliamento di un impianto Sinopec: negli ultimi anni le proteste ambientaliste sono cresciute del 120%.
Proteste “consentite”, perché sul piano “verde”, il governo cinese è in prima linea: la Banca Mondiale nel 2011 ha compiuto uno studio ad hoc sulla situazione dei veicoli elettrici nel mondo, sancendo, ancora una volta, un primato cinese. Gli investimenti previsti da Pechino nel settore sono ineguagliabili; 15 miliardi di dollari per sviluppare da qui al 2020 un’industria che vorrebbe diventare di massa. Non solo.
“La forte domanda verde e l’ambiente d’investimento solido della Cina forniranno un mercato vasto e grandi opportunità di investimento per le imprese di tutti i paesi, in particolare quelli della nostra regione”, ha specificato il presidente Hu Jintao, parlando di investimenti che muteranno il volto della Cina. Secondo alcuni insider, il dodicesimo piano quinquennale prevede investimenti per la tutela ambientale in Cina di 3 trilioni di yuan tra il 2011 e il 2015, con una crescita del settore tra il 15 e il 20 per cento, con la possibilità di creare oltre 10 milioni di nuovi posti di lavoro.
Le basi tracciate dall’attuale dirigenza cinese, saranno rigorosamente rispettate dai prossimi governanti. Sui temi ambientali, uno dei futuri leader tra i più attivi è Li Keqiang, il prossimo primo ministro cinese. “La Cina – ha detto in uno dei suoi interventi pubblici – prenderà misure generali nei prossimi cinque anni per diminuire il consumo di energia per unità del prodotto interno lordo del 16 per cento e aumenteremo il valore aggiunto del terziario di 4 punti percentuali, che promuoveranno vigorosamente la trasformazione economica”.
Il nodo militare
Infine, l’esercito. Chi dava Hu Jintao, l’attuale presidente, ormai prossimo alla pensione, potrebbe dover cambiare idea: appare infatti scontata la sua conferma al ruolo di capo delle forze armate cinesi per altri due anni. Potrebbe sembrare una pura formalità, mentre in questo momento storico è un ruolo di primaria importanza. L’esercito scalpita: Hu Jintao ha dapprima richiamato alla fedeltà i militari, poi ha sfruttato l’ondata di nomine ai vertici del PLA piazzando molti uomini del proprio carrozzone in ruoli di vertice. Inoltre la situazione asiatica, riguardo la sicurezza, non consente distrazioni: è ipotizzabile che il ruolo dei militari cresca specie in funzione anti giapponese e riguardo la situazione del mar cinese del sud. Rimanere per altri due anni al vertice dell’esercito, mentre il neo presidente Xi Jinping dovrà puntellare il proprio regno, è un colpo a favore di Hu.
L’attuale presidente uscente, inoltre, è abbastanza certo di avere suoi uomini nel rinnovato Ufficio Politico del Comitato Centrale: gli riuscisse anche di inserire Wang Yang, si potrebbe concludere che il XVIII Congresso segnerà altri punti a suo favore. Più di tutto, però, pare che Hu Jintao abbia piazzato un colpo politico storico: ovvero fare inserire la propria teoria dello “sviluppo scientifico del socialismo con caratteristiche cinesi” all’interno dello statuto del Pcc, al pari delle teorie denghiane, di Mao e di quelle di Jiang Zemin. Sarebbe un altro colpo micidiale a chi pensava che il vecchio Hu fosse naufragato nella più totale pensione politica.
Nell’esercito recentemente ci sono state alcune nomine importanti: il generale Ma Xiaotian, fino a ieri vice capo dello stato maggiore dell’Elp, è stato promosso e come lui è stato innalzato in grado anche il generale Zhang Yang, trasferito dalla regione del Guangzhou a Pechino. Entrambi sono in corsa per un posto nella Commissione militare centrale. In essa siedono 12 alti ufficiali dell’Elp, i quali costituiscono insieme al Presidente della Repubblica popolare il vertice supremo delle forze armate. Il rimpasto ai vertici dell’esercito cinese suggerisce importanti strategie politiche: il generale Ma è uomo molto vicino al prossimo presidente, Xi Jinping. Zhang invece deve la sua promozione, pare, al tentativo di "annullare le possibilità di promozione – secondo il Wall Street Journal – di due generali vicini a Bo Xilai a un posto nella Commissione militare centrale". Voce confermata dal Financial Times secondo cui sarebbero proprio due generali “principini”, Zhang Huyuan, capo del Secondo reparto d’artiglieria – l’arsenale nucleare cinese – e Liu Yuan, considerato un nazionalista veteromaoista e alto funzionario del Dipartimento generale di logistica dell’Elp, a pagare il prezzo della caduta del loro protettore.
E la situazione in Asia è incandescente: la spesa per la difesa in Asia dovrebbe superare quella europea entro la fine di questo anno. Nel 2005, il bilancio militare della Cina ha superato quello del Giappone come più grande in Asia e ha registrato un aumento annuale del 13,4 per cento.
Secondo Pechino, i numeri sono i seguenti: gli investimenti cinesi sarebbero saliti a più di 25 miliardi di dollari nel 2011, rispetto si 7,3 del 2000, ma secondo i dati dell’ Istituto internazionale di ricerca sulla pace a Stoccolma, i dati cinesi sarebbero al ribasso: la spesa militare sarebbe infatti di oltre 140 miliardi dollari. E le preoccupazioni cinesi sul proprio vicinato si possono comprendere esaminando i seguenti dati: la spesa per la difesa in India è cresciuta del 47,6 per cento nel corso del decennio, raggiungendo 37 miliardi di dollari l’anno scorso. Il bilancio militare del Giappone è passato da 40 miliardi di dollari a 58,2 miliardi di dollari. Gli investimenti nella difesa della Corea del Sud sono cresciuti da 17 a 29 miliardi di dollari, mentre il bilancio della difesa di Taiwan è cresciuto più lentamente: da 8 miliardi di dollari nel 2000 a 10 miliardi di dollari dello scorso anno.
L’esercito, dunque, è rilevante più che mai. In attesa che il Congresso sancisca i propri riti, la Cina guarda con attenzione agli Usa e al proprio interno. Dopo il Congresso, forse, sarà da chiedersi davvero se la Cina è in crisi o meno. E come deciderà di uscirne.
[Scritto per Linkiesta; foto credits: asiasociety.org]