La Cina rallenta ai minimi da 27 anni. Secondo le statistiche ufficiali rilasciate lunedì, nel secondo trimestre, l’economia cinese è cresciuta del 6,2%, il valore più basso dal 1992, sebbene all’interno del range fissato dalle autorità per il 2019 (6-6,5%). Le cause? Stando agli esperti un mix di fattori ha contribuito a frenare la crescita cinese, dopo un inizio anno più incoraggiante del previsto. In primis, la guerra commerciale con Washington, che oltre ad aver creato un clima sfavorevole per nuovi investimenti esteri ha vistosamente compromesso la performance di import ed export. La tregua raggiunta lo scorso dicembre a margine del G20 di Buenos Aires, ha di fatto posticipato le temute ricadute economiche a tre mesi dalla controffensiva tariffaria cinese. Con il risultato che l’economia nazionale ha continuato ad espandersi a un passo del 6,4% nei primi tre mesi dell’anno. Fino a quando il fallimento dei negoziati commerciali nel mese di maggio non ha indotto Donald Trump ha rincarare i dazi su 200 miliardi di dollari di merci cinesi.
Secondo quanto annunciato venerdì dalle autorità doganali, nel mese di giugno le esportazioni cinesi sono calate dell’1,3%, meno dell’atteso 2% ma più dell’1,1% del mese precedente. Contestualmente, le importazioni hanno riportato una contrazione su base annua del 7,3%, ben più del 4,5% pronosticato dagli analisti. Male quindi anche il manifatturiero, da maggio nuovamente in terreno negativo a causa di un calo degli ordini.
Commentando i dati, il portavoce dell’istituto nazionale di statistica Mao Shengyong, ha ricordato come “le condizioni economiche sono ancora avverse sia in patria che all’estero, la crescita economica globale sta rallentando, l’instabilità e le incertezze esterne sono in aumento, lo squilibrio e lo sviluppo inadeguato a livello nazionale sono ancora acuti, e l’economia è nuovamente sotto pressione”. Un chiaro riferimento ai venti di guerra che soffiano dall’altra sponda del Pacifico ma non solo.
La performance sottotono dell’Europa e di altri paesi asiatici concorre a indebolire la domanda globale. A ciò si aggiungono i problemi endemici del sistema finanziario cinese, riportati a galla dal caso della Baoshang Bank, piccolo istituto di credito della Mongolia Interna rilevata dal governo lo scorso maggio dopo essere stato definito un “grave rischio” per l’intero mercato interbancario a causa del credito in sofferenza ben superiore a quanto dichiarato. Da allora, nonostante le direttive ufficiali, il rubinetto dei finanziamenti per il settore non statale – quello più instabile ma che crea più posti di lavoro – ha cominciato a chiudersi.
Fino a qui, tutto sembra suggerire tempi foschi all’orizzonte. Ma, come già dimostrato in passato, la resilienza dell’economia cinese è in grado di smentire anche le proiezioni più catastrofiche. Una boccata d’aria fresca arriva infatti dalla produzione industriale, cresciuta a giugno del 6,3% rispetto all’anno precedente, dopo aver toccato i minimi da 17 anni il mese precedente. Complice l’incremento degli investimenti nei fixed assets (5,8%), come parrebbe confermare la crescita record nella produzione giornaliera di acciaio grezzo e alluminio. Negli ultimi dieci anni, spingere sulle infrastrutture ha aiutato l’economia cinese a superare momenti d’incertezza, lasciando tuttavia pesanti ipoteche sul futuro. L’elevato indebitamento dei governi locali – diretta conseguenza degli stimoli varati in risposta alla recessione globale del 2008 – rende piuttosto improbabile un ritorno al credito facile, mentre per il momento il sostegno governativo viene dirottato con precisione chirurgica solo nei segmenti più in difficoltà: settore privato e piccole imprese sono – almeno sulla carta – i principali beneficiari delle nuove politiche di sostegno.
Sorpresa anche dalle vendite al dettaglio, aumentate del 9,8% – il ritmo più veloce dal marzo 2018 -, con l’automotive a fare la parte del leone grazie alle offerte lanciate dai concessionari per smaltire le giacenze prima del cambio degli standard sulle emissioni. Da quando Pechino ha archiviato i tassi di crescita a due cifre per introdurre un modello di sviluppo sostenibile, rilanciare i consumi interni è diventato il vero mantra dell’amministrazione Xi Jinping in carica dal 2013.
Secondo il governatore della banca centrale, la Cina ha ancora a disposizione ampio spazio per adeguare le proprie politiche economiche nel caso di prolungate tensioni commerciali con Washington. Tutto lascia intravedere nuove sforbiciate al coefficiente di riserva obbligatorio in tandem con una riduzione dei costi fiscali per la piccola imprenditoria privata. Come consiglia un editoriale del Global Times, “la principale direttrice da seguire durante questa trasformazione è mettere le persone al primo posto”, risolvendo “le disuguaglianze di reddito” e ribilanciando “uno sviluppo economico squilibrato nelle diverse regioni”.
D’altronde, l’approssimarsi delle celebrazioni per il 70esimo compleanno della Repubblica popolare, il prossimo 1 ottobre, rende l’anno in corso particolarmente delicato per la leadership comunista che in assenza di elezioni democratiche fonda buona parte del proprio consenso sull’andamento del Pil e un basso tasso di disoccupazione.
[Pubblicato su Il Fatto quotidiano]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.