Originario dello Jiangxi e oggi professore di chinese studies in Australia presso l’università di Adelaide, Mobo Gao rappresenta una delle tante anime della cosiddetta «Nuova Sinistra» cinese, termine con il quale si identifica un filone di pensiero, molto variegato al proprio interno, che tenta, attraverso un approccio multidisciplinare, di rileggere la recente storia cinese contestualizzandola rispetto alle categorie occidentali. Un parte di questo filone di autori, inoltre, si è dedicato in modo specifico al tema della Rivoluzione culturale e al suo afflato trasformativo iniziale.
Se Wang Hui e altri si sono concentrati sul concetto di modernità, per rispondere a chi ritiene che la Cina sia diventata «moderna» solo con l’arrivo del capitalismo e delle riforme di Deng, Mobo Gao pone la sua attenzione su una lettura della storia cinese capace di rendere esplicito il cortocircuito creato dagli Asian studies di matrice americana e sviluppatisi per lo più nell’epoca della guerra fredda (capaci, naturalmente di influenzare anche altri paesi, nonché l’intero sistema mediatico).
Il suo recente Constructing China, Clashing Views of the People’s Republic (Pluto Press, pp. 288, 26,99 dollari, 2018) rappresenta un ottimo sunto del metodo di Mobo Gao (il suo libro precedente, pubblicato sempre da Pluto nel 2008 si intitola The Battle for China’s Past), concentrato a ridare la «conoscenza» negata alla Cina, secondo lui, dalla storiografia occidentale. Contemporaneamente Mobo Gao offre straordinari spunti interpretativi anche della Cina attuale.
Partiamo da Hong Kong e quanto sta accadendo. La sua tesi è che sia Hong Kong sia Taiwan siano collegate al senso di identità e nazione cinese. Oggi dunque Hong Kong ci interroga ancora su «cosa è la Cina»?
Sì, penso che Deng Xiaoping sperasse che dopo 50 anni dall’handover non ci sarebbero più stati «due sistemi», perché la Cina sarebbe diventata qualcosa di molti simile, se non proprio uguale, a Hong Kong. Con l’arrivo alla presidenza di Xi Jinping però le cose sono cambiate e non poco. La sua campagna anticorruzione ha minacciato i capitalisti di entrambe le parti. In secondo luogo, collaborare di fatto con i capitalisti di Hong Kong ha significato non occuparsi delle classi inferiori con il risultato che molti cittadini dell’ex colonia britannica si sono sentiti trascurati. Bisogna capire se Xi vorrà fare qualcosa al riguardo.
In Constructing China, enfatizza il peso dei media e di molti studi occidentali nella demonizzazione della Rivoluzione culturale. A 70 anni dalla nascita della Repubblica popolare cinese, tuttavia, anche il giudizio del Pcc è negativo al riguardo (di recente è stato pubblicato un discorso di Xi Jinping nel quale l’attuale presidente ribadiva il giudizio del partito). Questo accade, perché, come lei stesso scrive, «quanto fatto da Deng dopo la morte di Mao dimostra quanto fosse reale la paura di Mao: la strada cinese al capitalismo era partita con lo smantellamento delle comuni»?
Sì, e molto altro. Certo la Rivoluzione culturale è stata distruttiva in molti modi. Ci sono state tante vittime tra i funzionari e gli intellettuali ed è davvero difficile per loro e per le loro famiglie assumere atteggiamenti più storici e più impersonali nei confronti della rivoluzione culturale; questo è comprensibile. Ma il fatto è che il capitalismo è un sistema mondiale che inghiotte tutti, compresi i membri del partito comunista cinese, perfino i suoi funzionari principali. Se leggiamo le opinioni di Zhao Ziyang (segretario del Pcc nel 1989 rimosso per le sue posizioni riformiste e di dialogo con gli studenti, ndr) espresse durante gli arresti domiciliari (e pubblicate in Prisoner of State, Simon & Schuster Ltd, 2010, ndr), possiamo accorgercene appieno. Questo è il motivo per cui il ragionamento che il socialismo non può avere successo in un paese è così ragionevole. Per quanto riguarda Xi il discorso è più complesso perché credo abbia ancora la convinzione che la vera logica del Pcc sia quella di ottenere qualcosa di meglio per il popolo. Xi a dire il vero ha anche detto che non dovremmo usare gli ultimi trent’anni della Repubblica popolare, per denigrare i primi trenta.
Oggi la Cina, seguendo il ragionamento del suo ultimo libro, sembra essere in grado, quanto meno più del passato, di dire «quello che è giusto» e «quello che è sbagliato». Ma quale immagine della Cina il Pcc è pronto a svelare al mondo?
Non vi è consenso al riguardo. La maggior parte dei leader del Pcc è senza idee e ideali di questi tempi. Stanno lì per fare carriera. Wang Qishan, Xi Jinping e forse Li Keqiang potrebbero avere alcune idee per rispondere alla domanda. L’articolazione più esplicita è dello stesso Xi: cercare il destino comune dell’umanità (renlei gongtong mingyun) trovando un terreno condiviso, mettendo da parte le differenze per la coesistenza e lo sviluppo pacifici, da cui nasce l’idea della Nuova via della seta. Si suppone che questo sia valido (consentendo differenze) sia a livello internazionale sia a livello di politica interna.
Qual è la differenza che si avvicina alla Cina tra ciò che lei chiama «Conoscenza» e «Atteggiamento»?
La produzione di conoscenza dell’umanità al momento è dominata dall’Occidente e dal capitalismo. L’élite intellettuale cinese in gran parte è inserita in questo sistema di produzione. L’atteggiamento nei confronti della Cina è particolarmente duro perché né la sinistra né la destra trovano la Cina accattivante. La sinistra ritiene la Cina troppo capitalista e la destra troppo comunista. Inoltre vi sono atteggiamenti razzisti nei confronti della Cina. La conoscenza rafforza l’atteggiamento e l’atteggiamento induce un certo tipo di produzione di conoscenza. Si nutrono a vicenda.
Durante il decennio di Hu Jintao c’era la sensazione che la Cina potesse cambiare, intendo, non in senso democratico, ma nel senso di una maggiore attenzione alla ridistribuzione e alle distorsioni dello sviluppo. Poi tutto è parso fermarsi. Perché?
C’è stato un cambiamento molto positivo: l’abolizione di qualsiasi tipo di tasse agricole. È stata la prima volta nell’intera storia della Cina da oltre duemila anni. Hu probabilmente voleva fare di più, ma era troppo debole. Non sappiamo quale fosse la politica che si celava dietro il muro rosso di Zhongnanhai (il quartier generale del Pcc, ndr), ma suppongo che il motivo principale sia da ritrovare nell’interesse acquisito di tanti settori, un interesse autoprotettivo che ha fatto sì che i desiderata politici rimanessero all’interno del complesso di Zhongnanhai in quel momento. Ho il sospetto che Xi abbia voluto creare tanti piccoli gruppi politici sotto la sua guida proprio per questo motivo. Penso che sia la sua soluzione per aggirare i vari ostacoli ministeriali per l’attuazione delle politiche. Quello che chiamo «interesse acquisito» è il mondo delle imprese statali, dei principini (una fazione all’interno del Pcc composta da figli e parenti di funzionari del Pcc ndr) e dei comprador.
Cosa pensa dell’uso di Xi Jinping di Mao?
Ha la convinzione che il Pcc dovrebbe e potrebbe servire meglio la Cina e il popolo cinese. Il suo insistere sul concetto di chuxin («l’aspirazione originaria») non è solo retorica ma un vero tentativo di ripristinare lo spirito e la legittimità del Partito comunista.
In Cina, anche a causa della Nuova via della seta, si è riacceso un dibattito sul concetto di Tianxia. Cosa ne pensa di questo? In che modo questo concetto può aiutare la Cina a proporre una governance globale?
Posso capire l’intenzione del dibattito ma non credo che sia un concetto utile in questo mondo. Il «destino comune attraverso lo sviluppo pacifico» penso sia un concetto più accettabile al di fuori della Cina. Tianxia implica un centro e una gerarchia. Questo non è un concetto che risulta accettabile nel mondo moderno.
In Italia è stato appena pubblicato «Il modello cinese» di Daniel A. Bell. Cosa pensa del libro innanzitutto? Non ritiene che il contrasto tra democrazia e meritocrazia sia limitante, perché è inserito in una logica capitalista, senza immaginare altre possibilità? E ancora: un modello cinese può essere in grado di differenziarsi dall’evoluzione del capitalismo occidentale?
Bell ha il merito di mostrare che le elezioni non dovrebbero essere l’unico criterio di legittimità con cui valutare un paese. Finora quella di Bell è l’unica voce disposta a combattere contro il discorso politico dominante in Occidente ed è stato preso sul serio. Si tratta di un risultato enorme. Ma ha dei limiti, in effetti. Poi sul fatto che esista o meno un modello cinese in grado di fornire un’alternativa non è una discussione che ha ancora portato a una risposta definitiva, che forse neanche può esserci. Dipenderà da due fattori principali: se la Cina sarà in grado di risolvere le sue contraddizioni e i suoi enigmi interni e fino a che punto l’Occidente vorrà strangolare la Cina prima che la Cina abbia successo.
È in corso da tempo ormai uno straordinario impegno tecnologico della Cina, a proposito di Big Data, Intelligenza Artificiale, crediti sociali. E sembra che la Cina sia sulla stessa strada dei paesi occidentali verso uno «stato di sorveglianza» all’interno di un mondo caratterizzato dal «capitalismo di sorveglianza». Cosa ne pensa di questo? E quanto è importante la storia cinese in questo scenario di controllo sociale (penso ad esempio al sistema baojia o all’organizzazione dei quartieri più recente)?
Sì, questo è preoccupante per le persone come noi che sono individualiste e autonome. Ma potrebbero non essere così minaccioso, almeno non ancora, per molti in Cina. Per loro se obbediscono alle regole e alle leggi non ci saranno problemi, non importa quanto siano sotto sorveglianza. Per alcuni questo è positivo per la sicurezza personale. Questo è l’atteggiamento adottato da molti in Cina nei confronti del cosiddetto esperimento di credito sociale. In Cina al momento è difficile far rispettare qualsiasi norma e regolamento, anche quelli con le migliori intenzioni. Nella Cina tradizionale invadere la libertà personale e la privacy non era in generale un problema sociale perché la tradizione ne sottolineava l’obbligo, le responsabilità reciproche e le relazioni reciproche. Ora la Cina è cambiata troppo perché le persone non si preoccupino dello spazio personale. Quindi ritengo che questo potrà essere un problema in futuro.
Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.