Erano già state annunciate tra le riforme varate al terzo plenum, oggi arriva la conferma: la Cina abolisce la rieducazione attraverso il lavoro (“laojiao”) e allenta il controllo delle nascite (legge del figlio unico). È stata la commissione permanente del Congresso Nazionale del Popolo, il “parlamento” del Dragone, a mettere nero su bianco le misure già decise.
A differenza dell’Occidente, dove prima si fa una legge e poi la si applica, in Cina succede di solito il contrario. Prima si prova, si sperimenta, si cambia leggermente l’esistente; poi, quando ai vertici c’è consenso e la novità diventa “esportabile” a livello generale, ecco la legge che sancisce il tutto. Così è anche per le due misure di cui si parla oggi, che riguardano problemi da tempo sotto la luce dei riflettori.
La cosiddetta rieducazione attraverso il lavoro, introdotta nel 1957, consentiva di detenere amministrativamente – cioè senza processo – chi si fosse reso colpevole di reati minori, facendo leva sull’effetto riabilitativo del lavoro. Di fatto, si era poi tradotto in un sistema di lavori forzati totalmente discrezionale, che colpiva spesso indiscriminatamente che fosse “scomodo”: dai dissidenti ai membri di qualche organizzazione o setta religiosa controversa (come il Falun Gong); ma molto più spesso chi avesse semplicemente qualche questione in sospeso con il funzionario locale di turno, che ricorreva alla detenzione amministrativa per arraffare o per non “perdere la faccia”.
I media cinesi giudicano ora “superflua” la rieducazione attraverso il lavoro, grazie allo sviluppo del sistema legale cinese che renderebbe esaurita la “missione storica” dei campi di lavoro. La stessa stampa di Stato annuncia inoltre il rilassamento delle norme sul controllo delle nascite. Ora, ogni coppia potrà avere due figli se almeno uno dei due genitori è figlio unico, nel tentativo di contenere l’invecchiamento della popolazione e di mantenere una crescita demografica “bilanciata”. Introdotta alla fine degli anni Settanta, la cosiddetta “legge del figlio unico” ha permesso alla Cina di ridurre in prospettiva le bocche da sfamare, contribuendo così alla sua crescita esponenziale.
Si ritiene infatti che, senza pianificazione familiare, i cinesi sarebbero oggi circa 400 milioni in più. L’applicazione della politica ha tuttavia suscitato numerose critiche. Da un lato, l’imposizione amministrativa di una norma che riguarda la vita familiare dei cinesi e quella biologica delle donne, si è spesso tradotta in mera violenza “di Stato” quando qualche funzionario zelante ha obbligato donne che trasgredivano il limite di un figlio ad abortire. L’opinione pubblica si è per esempio indignata l’anno scorso quando sono circolate in rete le foto di una donna costretta all’interruzione di gravidanza al settimo mese in gravidanza. D’altro lato, il Paese deve ora affrontare incombenti sfide demografiche: una popolazione anziana in rapida crescita, la contrazione della forza lavoro e gli squilibri nel rapporto tra maschi e femmine, dati dagli aborti selettivi a cui ricorrono molte famiglie per ragioni sia culturali sia materiali.
Il rapporto tra i sessi in Cina è salito a 115 maschi per ogni 100 femmine, mentre la popolazione attiva ha cominciato calare l’anno scorso. Il tasso di natalità è sceso a circa 1,5, ben al di sotto del tasso di sostituzione, rimarcano i media. Va aggiunto che la modernità ha portato nuovi costumi, soprattutto nelle metropoli, per cui le nuove coppie “in carriera” del ceto medio non sembrano più così ansiose, come lo erano invece i loro avi, di sfornare figli per garantire la continuità della discendenza. E, soprattutto, sempre in area metropolitana, era spesso già invalsa la pratica di fare più figli, considerando la multa che si paga in caso di trasgressione della legge, come una semplice “tassa” sul figlio in più.
Le leggi di oggi, ratificano quindi tendenze già in atto da tempo. Nella sua marcia verso uno Stato di diritto – che sia inteso, avrà sempre caratteristiche cinesi – Pechino sente ora il bisogno di metter nero su bianco per voltare pagina in due delle più controverse questioni degli ultimi decenni. Il diritto è il “codice” con cui Pechino ha deciso di entrare in comunicazione con l’Occidente, dal momento delle “riforme e aperture” decise trent’anni fa da Deng Xiaoping. Sono state le necessità dell’economia, i rapporti di mercato, a dare impulso alla produzione legale. La nuova leadership rimarca da tempo l’importanza della legge come timone per il cammino verso la Cina che verrà.