La chiamano “new scramble for Africa”: è la presunta nuova spartizione africana che vede le ex potenze imperialiste sgomitare con le potenze emergenti – Cina in primis – per conservare spazi di influenza nel continente del futuro. Presunta perché quella del risiko sino-europeo è una narrazione semplicistica, a lungo contestata da analisti e ricercatori. Un fatto recente ne conferma chiaramente i limiti.
Giorni fa, Pechino ha invitato Francia e Germania a “creare più opportunità di sviluppo comune” in Africa. Ma come? Pechino tende la mano agli avversari? Sì, già da un po’. La proposta segue la creazione dell’“Iniziativa per una partnership sullo sviluppo dell’Africa”, introdotta lo scorso maggio in occasione della presidenza cinese al Consiglio di Sicurezza dell’Onu per convogliare risorse internazionali nella “ricostruzione post-epidemia”. Stavolta però l’invito arriva da molto in alto.
E’ stato il presidente cinese Xi Jinping in persona a proporre a Merkel e Macron “una cooperazione trilaterale, quadripartita o multipartitica”. Il linguaggio è familiare. Il Nikkei Asia Review lo ha definito un “Quad africano”, termine che trae spunto dalla strategia quadrilaterale adottata da Washington nell’Indo-pacifico con India, Giappone e Australia: il “Quad”, appunto.
Cosa c’entrano Cina e Africa?
Nei sette anni dal lancio della Belt and Road (BRI) – la strategia di politica estera con cui Pechino sostiene la penetrazione internazionale delle aziende statali cinesi e dei suoi standard industriali e ambientali attraverso la costruzione di grandi vie di comunicazione marittime e terrestri – la Cina ha investito massicciamente in oltre 140 paesi, compresi almeno 46 stati africani. Nonostante la grancassa mediatica, il progetto è stato fortemente criticato dalle cancellerie occidentali per il grave indebitamento dei paesi partecipanti. Fattore che dal 2016 hanno contribuito a frenare l’espansione degli investimenti cinesi nelle nazioni più economicamente instabili, dirottando i finanziamenti dalle grandi opere verso settori meno capital-intensive.
Respingendo le accuse, da tempo Pechino cerca di presentare la BRI come un progetto inclusivo, in antitesi all’esclusività delle iniziative americane che impongono ai paesi partecipanti conformità ai cosiddetti “valori universali”. [SEGUE SU LEFT]
Di Alessandra Colarizi
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.