Bisogna riconoscere a Marco Müller il coraggio di aver portato in una città tradizionalmente refrattaria al “nuovo” film rarefatti come Mai Morire, del messicano Enrique Rivero, vincitore del premio per la migliore fotografia. Degna di nota anche la decisione, forse motivata da fattori oggettivi, di portare a Roma film cinesi destinati a essere successi commerciali in patria, ovvero che anche i cinesi guardano.
Come sa bene chi si occupa di cinema “globale”, non sempre l’assenza di interessi capitalistici garantisce la libertà di espressione, molto spesso bloccata o comunque appesantita anche da lauti finanziamenti statali. Così il paradosso è che il film vincitore, Marfa Girl di Larry Clark, pur essendo prodotto negli Stati Uniti e girato da un autore affermato, è quasi del tutto indipendente, non a caso verrà distribuito solo sulla rete. Non siamo in grado di dire se alcuni dei lavori kazaki, messicani, filippini o cinesi visti siano meno indipendenti, ma di certo emerge per alcuni di loro l’evidente ingerenza da parte dello Stato o di enti pubblici.
L’ultimo film cinese presentato nella sezione speciale “XXI” del Festival di Roma è Liu Baiyuan, giudice arciere, il nuovo “wuxia pian” (o “gongfu pian”, film di arti marziali) diretto da Xu Haofeng, autore di The Sword Identity (2011) e sceneggiatore dell’ultimo film di Wong Kar-wai, The Grandmasters.
La storia, ambientata nel 1920, nella fase di transizione seguita alla caduta dell’Impero (1911), assimilata al momento di caos dell’epoca antica dei Regni Combattenti, è quella dell’abile arciere Shuanxi alias Liu Baiyuan (interpretato da Song Yang), che pur vestendo i panni di un innocuo fruttivendolo ha in realtà, in virtù del suo talento straordinario, il delicato compito di risolvere le dispute tra signori locali e le scuole di arti marziali cui essi sono affiliati. Come spesso accade ai giudici, l’incorruttibilità di Liu lo metterà contro personaggi che finiranno per perseguitarlo: pur malandato e vittima di diversi agguati, riesce a scampare a imboscate mortali garantendosi una via di fuga, ma privato degli affetti (la sorella scompare dopo essere stata violentata) decide di tornare nella sua città, ritrovandosi faccia a faccia con il vecchio rivale Kuang Yimin (Yu Chenghui), sposato con la donna che Liu ama ricambiato (Li Chengyuan).
Questo è uno dei tanti film cinesi che sembra vivere in una condizione di ambiguità. Come nel caso di 1942 di Feng Xiaogang, Liu Baiyuan ha certamente ottenuto il beneplacito del governo cinese e del comitato di censura cui vengono automaticamente sottoposti tutti i film “ufficiali”; ha anche presumibilmente goduto di sovvenzioni statali (non sappiamo di che entità), eppure sembra prima di tutto il frutto di una riflessione autoriale su uno specifico aspetto della cultura cinese. Lo stesso Xu è un esperto e storico di arti marziali: questo suo ultimo lavoro prosegue lo studio approfondito – realizzato anche attraverso il mezzo filmico – sul lato concettuale e socio-politico del “Wushu”, comunemente noto come kung fu.
In Liu Baiyuan, il regista riflette in particolare sul simbolismo che alcune tecniche e armi implicano: la spada rimanda alla forza e al contatto diretto, aspetti della carriera “esteriore” di un uomo; l’arco, molto più complesso perchè richiede la capacità di guardare lontano (non solo spazialmente, ma anche in senso temporale, verso il futuro), è una tecnica che va padroneggiata, richiede un elevato autocontrollo e non concede margini di errore, in questo più vicina all’interiorità e alla psiche, come la freccia che penetra in profondità. Altra prerogativa della freccia è quella di non poter tornare indietro: questo rimanda al compito di Liu Baiyuan, che non consente ripensamenti o vie di mezzo.
L’ambientazione nel passato e il ricorso a un personaggio di finzione, comunque perfettamente plausibile, anche in questo film sembrano mascherare allusioni al presente, ma si tratta forse di una lettura allegorica datata cui gli osservatori occidentali, da Jameson in poi fanno fatica a rinunciare. È però un dato inconfutabile che a partire dai testi dello scrittore Lu Xun, o forse da molto prima, i cinesi si sono abituati a riconoscere rimandi simbolici e allegorici all’interno dei testi “culturali”; non si può poi ignorare il fatto che il tema delle ingiustizie sociali e dei soprusi (ma esercitati da chi? Dai signori feudali, da politici corrotti o da imprenditori senza scrupoli?) è molto sentito, forse molto più altrove, di sicuro più che in Italia.
Film che presentano figure di eroi, anche se non sempre vincenti o trasparenti, sono ancora possibili in paesi come la Cina, perché si confrontano con un pubblico, una collettività di spettatori per i quali malgrado la realpolitik e le contingenze socio-economiche, principi etici e ideali cavallereschi mantengono la loro importanza o quantomeno un senso residuo. Portati in occidente, film come questi perdono la loro carica moralistica e restano solo film di genere, apprezzati per l’eleganza delle immagini e la spettacolarità dei combattimenti. Certo è che i film di arti marziali in costume sono tra le forme d’intrattenimento più popolari in Cina, nella letteratura e in televisione, forse anche perché al pubblico cinese fa piacere essere messo di fronte al ricordo simulato di quello che il paese era prima degli stravolgimenti occorsi dalla metà del XX secolo. Il pubblico non-cinese ne apprezza il doppio esotismo: la lontananza della storia nel tempo e nello spazio.
Da operazioni come questa, corrispondenti a produzioni non necessariamente colossali ma certamente molto curate, si trae l’impressione che il cinema cinese, indipendentemente dai finanziamenti ottenuti e dai conseguenti compromessi, sia sempre più un cinema di “ricerca” e sempre meno “politico”.
Tornando al Festival, quello cui abbiamo assistito è anche l’incontro/scontro tra film di genere e film “sociale”: a ben guardare le due tipologie non sono così incompatibili, anzi sembrano sempre più interdipendenti. Un film di genere come “Giudice arciere” ha già un mercato definito e un target di “consumatori”, ma incidentalmente fornisce anche uno spaccato della vita in Cina in un determinato periodo storico: questo rappresenta il suo valore aggiunto per il pubblico di tutte le nazionalità compreso quello cinese, che ama molto le “storie di gesta” e continua ad essere affascinato dal passato più o meno remoto, virtualmente spazzato via da quello recente. Bisogna anche aggiungere che alla “disponibilità” ad essere ingannati alla base di tutto il cinema ma soprattutto di quello di genere, si è forse sostituito il desiderio, la vera e propria urgenza di conoscere, o magari solo vedere quello che è lontano (e diverso?). Man mano che il cinema invecchia il film di genere diventa sempre più un gioco intellettuale da cui aspettarsi determinati cliché, intesi come stilemi e “situazioni” reiterate.
Questo ci riporta al senso profondo di un festival internazionale del cinema come quello diretto da Müller quest’anno a Roma: la possibilità di far circolare un prodotto culturale e le sue diverse interpretazioni, una serie di combinazioni interpretative diverse a seconda del contesto ricevente. Ci fa anche pensare che il significato dell’interpretazione rimasto, o l’unico che questa abbia mai avuto, risiede proprio nello spazio fisico e sociale in cui essa avviene. È questa la vera conquista del postmoderno e senso profondo della globalizzazione: non annullare la possibilità di giudizi o valutazioni generali né i particolarismi culturali, ma trovare per loro grandi arene di espressione e confronto.
*Mariagrazia Costantino ha frequentato un Master in Media and Film presso la SOAS (School of Oriental and African Studies) di Londra e ha da poco conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Cinema presso il Dipartimento di Comunicazione e Spettacolo dell’Università di Roma Tre. È coautrice di Arte Contemporanea Cinese (Electa) e ha contribuito alla stesura del testo World Film Locations: Beijing.