Du Zhan è un thriller d’azione come i tutti i precedenti film di un autore ormai di culto. La novità è costituita dal fatto che a differenza degli altri, tutti ambientati a Hong Kong, ques’ultimo è stato girato nella Cina continentale, nella contea di Jinshan. Ma Drug War è anche una riflessione adrenalinica sul lato oscuro della nuova cultura affaristica cinese, in cui tutto sembra facile, quasi a portata di mano: persino produrre e smerciare quantità ingenti di droga di tutti i tipi in Cina e nei vicini paesi asiatici.
Al centro della storia due personaggi, il capitano Zhang (Sun Honglei) e il trafficante Ming (Louis Koo): entrambi non sembrano avere altro all’infuori della loro missione, in particolare il trafficante, che sappiamo perdere la moglie in un esplosione avvenuta in uno dei capannoni dove veniva sintetizzata la droga da vendere; entrambi sono costretti a recitare un ruolo funzionale all’operazione di polizia lanciata dallo stesso Zhang per fermare un grosso traffico di droga e la sua articolata rete. I due sono inoltre accomunati dal destino che li attende, ma il trafficante Ming subisce una sorta di contrappasso stranamente coerente con il suo “percorso”: quello di cui ha vissuto lo uccide in modo calcolato e programmatico, da qui l’orrore che suscita in lui l’idea della condanna a morte.
Il film è contraddistinto da una velocità e un ritmo sincopato che non concedono pause: i personaggi non dormono e non mangiano, presi come sono da un’avventura che non lascia scelta, e senza via di ritorno. Motore dell’azione è l’attaccamento disperato di Ming alla vita e il suo ripetuto tentativo di sfuggire a un destino già scritto; deriva da questo la sua disponibilità a collaborare con la polizia che, a sua volta in incognita, lo coopta per far partire l’intera operazione. Ming in realtà non dice tutto, centellina le informazioni per garantirsi scappatoie e il suo istinto alla fuga è evidente sin dall’inizio.
Essenziali risultano i dialoghi fra trafficanti veri e finti, più che altro esplosioni di nevrosi verbale, logorroici monologhi in cui sia il capitano nei panni del boss Haha – così soprannominato per la sua propensione alla risata forzata – che il suo antagonista fuorilegge snocciolano nomi di pezzi grossi (in cinese da wan) del traffico di droga di tutta l’Asia, nella convinzione che questo li protegga in qualche modo: nella Cina contemporanea e non solo i guanxi (relazioni) sono tutto, anche un capitale da investire e su cui investire.
Quello che fa di questo un film riuscito è la sapienza registica di To, la sua capacità di creare un equilibrio e la disinvoltura nel calibrare la velocità delle scene, orchestrando proprio come un musicista un ritmo interno che aiuta lo spettatore a rimanere concentrato dall’inizio alla fine, sostenuto in questo anche da una trama elaborata ma non particolarmente contorta. Si intuisce come il tema stia a cuore al regista e si immagina anche l’incognita che per lui può aver rappresentato il fatto di girare nella Cina continentale, un mondo a lui sconosciuto.
Particolarmente interessante a questo proposito la scelta della nuova location, indicativa dei meccanismi di produzione del cinema in atto nella Repubblica Popolare, in particolare perché l’ago della bilancia dell’industria sembra essersi inevitabilmente spostato sul continente, da dove provengono i finanziamenti. Dal punto di vista narrativo bisogna notare che quella della “Mainland China” è una società sempre più complessa e stratificata: cosa che rende plausibile l’ambientazione sul territorio di storie meno “prevedibili”, e possibile l’ apertura a una più ampia gamma di generi.
Quello che ai nostri occhi impreziosisce l’operazione sono i momenti in cui certi paesaggi tipicamente cinesi – in senso “moderno” – fanno capolino tra una scena e l’altra: lo sterminato regno reale e virtuale delle autostrade, ma anche scorci del porto di Tianjin, quasi certamente ricostruito in digitale. Il grigio del cielo perennemente plumbeo, del cemento, del ferro, insieme ai colori dei componenti chimici usati per sintetizzare le sostanze stupefacenti, contribuiscono a creare un’atmosfera cupa ma non sinistra, anzi stranamente aperta a una possibile risoluzione. Eppure non trapela molta speranza: alla fine anche i “buoni” muoiono. D’altra parte se i poliziotti si travestono da trafficanti anche il contrario è vero: tutti possono direttamente o indirettamente essere coinvolti nella rete e il modo di fare dei boss ricorda quello degli imprenditori (e forse politici?) di tutto il modo (e viceversa), con l’idea di base che movimenti ingenti di denaro siano un’attività illecita di per sé, indipendentemente dalla provenienza.
La scena finale dell’esecuzione capitale – epilogo annunciato più volte – è quasi inevitabile nell’economia del film e non può essere ignorata, soprattutto se collocata nella più ampia considerazione del sistema penale cinese, in cui la morte è più che presente e istituzionalizzata; anche per questo motivo la scena in questione non può lasciare indifferenti e anzi scuote abbastanza, tanto che persino applaudire a un film convincente e fatto bene diventa uno sforzo.
Viene da chiedersi se un regista del continente potrebbe mai inserire una scena simile in un suo film, e sebbene Hong Kong sia “Cina” ormai da tempo, pensiamo che un simile distacco e lucidità su determinati temi siano possibili solo per chi è cresciuto lontano da quel sistema.
*Mariagrazia Costantino ha frequentato un Master in Media and Film presso la SOAS (School of Oriental and African Studies) di Londra e ha da poco conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Cinema presso il Dipartimento di Comunicazione e Spettacolo dell’Università di Roma Tre. È coautrice di Arte Contemporanea Cinese (Electa) e ha contribuito alla stesura del testo World Film Locations: Beijing.