La decisione di inserire in questo modo alcuni titoli, in particolare quelli cinesi, sembra derivare da una sapiente gestione delle aspettative sulla direzione di Müller; potrebbe però anche essere un modo per sfuggire alla presunta prevedibilità di alcune scelte e una strategia per creare attesa e curiosità dietro i titoli, annunciati come capolavori.
La prima si è tenuta domenica 11 novembre alla presenza del regista e degli attori protagonisti: Zhang Guoli, Xu Fan e l’americano Adrian Brody (altra stella hollywoodiana presente nel cast è Tim Robbins). Il film in questione è 1942 (Yi jiu si er, Back to 1942) di Feng Xiaogang, classe 1958 e maestro del genere “hesuipian”, letteralmente “film del Capodanno cinese”: “cinepanettoni” di qualità, molto curati, costosi e narrativamente articolati, ma anche popolarissimi, al punto che lo stesso Feng può essere ritenuto il regista cinese più famoso in patria.
1942, tratto dall’omonimo romanzo dei fratelli Huayi, si inserisce nel solco degli hesuipian per la durata, la qualità della produzione e la presenza di star internazionali (già nel 2008 Donald Sutherland era stato protagonista di Big Shot Funeral dello stesso autore), ma se ne discosta per alcuni motivi al centro dell’intera operazione cinematografica.
A differenza dei precedenti lavori di Feng, quest’ultimo non è ambientato nel presente cristallizzato della Cina in pieno boom economico, ma nel passato recente: è quindi in costume, e i costumi di cui stiamo parlando sono le tipiche giacche e pantaloni imbottiti che il viaggio e la miseria riempiono di squarci. Così, anche attraverso la rievocazione delle “divise povere” della Cina rurale, il regista si cimenta con il passato e la storia, come prima di lui cineasti quali Zhang Yimou e Chen Kaige. Anche in questo caso non possiamo fare a meno di pensare che si tratti di un modo molto elegante quanto evasivo di parlare del presente.
Come Lust Caution di Ang Lee, la storia di 1942 è ambientata nel periodo immediatamente precedente alla fine della guerra sino-giapponese e di quella civile che porterà alla fuga a Taiwan del generale Chiang Kai-shek, alla vittoria di Mao Zedong e alla fondazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949. Se però il film di Ang Lee, ambientato in una Shanghai fascinosa e controllata dai giapponesi, è pieno di glamour, quello di Feng non potrebbe essere più diverso: al centro delle vicende si trova infatti una circostanza storica, ovvero la terribile carestia che colpì la provincia dello Henan e i suoi allora 30 milioni di abitanti. E sebbene il film indichi il 1942 come annus horribilis della catastrofe, si scopre grazie alla voce fuori campo del narratore che la sciagura, causata da un’invasione di locuste ma anche dalla mobilitazione di derrate richiesta per affrontare il conflitto con il Giappone (che aveva proprio nell’Henan uno dei suoi teatri principali), si protrasse in realtà più a lungo, almeno fino al 1944.
Nello specifico, il film mostra in modo accurato e con ricchezza di particolari l’esodo degli abitanti della contea di Yanjin verso lo Shaanxi, in cerca di una nuova abitazione ma soprattutto di cibo. Se l’inizio è quasi farsesco, con la descrizione del villaggio che ruota intorno all’abitazione fortificata del padrone Fan e di suo figlio, descritti come avidi quanto goffi feudatari, dal momento in cui la fortezza viene invasa da briganti delle zone vicine si assiste a un crescendo di disperazione, proporzionale alla fame che affligge i personaggi, dai più ricchi ai più poveri, fino a ucciderli quasi tutti (si salvano solo il padrone e la figlia venduta a un benestante signorotto). Il tutto accompagnato da una pioggia di missili e sventagliate di mitraglia provenienti dai cacciabombardieri giapponesi che sorvolavano la zona, mirando all’esercito nazionale cinese consapevoli di colpire anche i civili.
In questo quadro di desolazione e parallelamente alla fuga di massa si muovono diverse figure complementari: il reporter americano Theodore White, interpretato da Adrian Brody, che testimonierà con fotografie e articoli la terribile carestia e l’esodo verso lo Sha’anxi; il governatore dello Henan Li Peiji, incaricato direttamente da Chiang Kai-shek ma incapace di far fronte alla situazione e di spiegare al generale la gravità della situazione; lo stesso Chiang, che appare troppo preso da questioni di politica internazionale per preoccuparsi di quello che avviene in Cina. Dai lunghi dialoghi di dignitari e alte sfere di un governo indebolito da lotte intestine trapela l’uso manipolatorio dello Henan come pedina di un gioco in cui ai giapponesi viene ceduto molto terreno, a scapito della popolazione.
Lo stesso esercito rivoluzionario nazionale è descritto come un manipolo disordinato e disorientato di soldati senza scrupoli, che invece di aiutare la popolazione la danneggiano salvo poi battere in ritirata senza troppe remore. Alcuni preti cattolici che compaiono all’inizio approfittano del caos e dello stordimento della gente per diffondere il credo: sono mandati tra gli sfollati dal padre missionario Megan interpretato da Tim Robbins, che senza mai uscire dal suo monastero funge da guida spirituale e dà accoglienza anche al giornalista, ma che nell’economia generale del film è in fondo come Brody un’attrazione funzionale a conferire prestigio e credibilità internazionale.
Sia padre Megan che White – figura non secondaria nello sviluppo narrativo, visto che è lui a svelare le vere condizioni in cui versa la provincia e a far sì che vengano stanziati aiuti (insufficienti e pretesto per manipolare ulteriormente la popolazione) – spariscono ben presto: sapremo di loro solo dai titoli di coda. Per tutta la seconda metà il film viene lasciato in balìa delle vere forze motrici: la gente comune, già pronta per il livellamento sociale ed economico che il futuro avvento del comunismo avrebbe portato (visto che padroni e servi sono privati di tutti i loro beni); il governo militare nazionalista e infine i giapponesi, crudeli sterminatori che seminano morte dal cielo e finiscono per stanziarsi sul territorio.
Un lavoro come 1942 è coraggioso per molti aspetti, tra cui la scelta di affrontare un tema come la fame, ancora presente nella memoria genetica di molti cinesi ma divenuto ormai un tabù sociale che non può non suscitare un certo imbarazzo, eppure risulta forse anche coerente con alcune necessità propagandistiche, all’indomani dell’elezione della nuova dirigenza del partito e quindi del paese: sembra ad esempio – alquanto stranamente? – consacrare la figura di Mao a eroe assoluto del paese (l’unica battuta in cui viene nominato lo accosta a Gandhi per la sua vicinanza al popolo) e puntellare poi più prevedibilmente alcuni capisaldi dell’identità nazionale, primo fra tutti il rancore per le violenze subite durante la dominazione giapponese, pericolosamente riacceso o meglio rinvigorito dallo scontro diplomatico in corso per il controllo sulle isole Diaoyu (in giapponese Senkaku) contese tra i due paesi nel Mar della Cina Orientale.
Pur non mettendo in discussione la capacità e il talento di un regista di lunga esperienza come Feng, ci chiediamo quanto possa essere utile mobilitare tanto capitale per un prodotto che pur avendo l’obiettivo di riportare l’attenzione su una tragedia dimenticata, una sorta di silenzioso sterminio, finisce indirettamente per riaprire antiche ferite e odi più o meno sopiti, non da ultimo quello per il governo nazionalista di Taiwan.
*Mariagrazia Costantino ha frequentato un Master in Media and Film presso la SOAS (School of Oriental and African Studies) di Londra e ha da poco conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Cinema presso il Dipartimento di Comunicazione e Spettacolo dell’Università di Roma Tre. È coautrice di Arte Contemporanea Cinese (Electa) e ha contribuito alla stesura del testo World Film Locations: Beijing.