Un’ideologia imperiale durata 2000 anni, un leader autoritario – Xi Jinping – che la ripropone per spostare il baricentro della leadership mondiale da Washington a Pechino e sovvertire l’attuale ordine globale. Ma il realizzarsi di queste ambizioni richiede qualcosa che la Cina di oggi non è in grado di esprimere: quella forza di attrazione che solo una cultura fondata sulla libertà di pensiero e di espressione può avere. Cina contro Occidente, autocrazie contro democrazie? Quali sono le ragioni storiche e culturali alla base del modello di potere cinese, ritenuto da Xi Jinping superiore a quello delle democrazie liberali? Impossibile rispondere senza legare l’attualità alla storia imperiale. Il progetto di Xi è infatti quello di porre la Cina al centro, com’era nella concezione cinese prima dell’arrivo delle potenze occidentali, e di tornare a occupare la scena del mondo, da protagonista. Lo scontro non è solo economico e politico, ma anche culturale e valoriale: a essere messi in discussione sono infatti gli stessi principi liberali, fondamento delle democrazie di un Occidente oggi sempre più in preda a una forte crisi identitaria. Contrapponendo un nuovo assetto internazionale a quello creato dai vincitori della Seconda guerra mondiale, la Cina di Xi si avvicina adesso alla Russia di Putin. Ci troviamo di fronte a un nuovo tornante della storia? Riuscirà il mondo a evitare un nuovo conflitto mondiale? Sono alcune delle domande che si pone il sinologo Maurizio Scarpari nel suo ultimo libro “La Cina al centro” nelle librerie dal 27 ottobre. China Files ve ne regala un estratto per gentile concessione dell’editore Il Mulino (19,00 euro).
«La Cina è destinata a comandare, ma non è pronta a farlo». Con queste parole Liang Xiaojun, docente alla China Foreign Affairs University di Pechino, fotografava la situazione nel settembre 2016, prima del secondo rinnovo di Xi Jinping alla guida del paese. Che l’oggetto del comandare fosse l’intero mondo non era un sottinteso, essendo stato reso esplicito già all’inizio dell’articolo. Sette anni dopo, riconfermato Xi Jinping al governo per il terzo, inedito mandato quinquennale che potrebbe protrarsi quanto la sua vita, quell’affermazione, audace e tutt’altro che scontata per un accademico cinese della «nuova era», si potrebbe così aggiornare: «La Cina non è destinata a dominare il mondo, né sarebbe pronta a farlo». Non potrebbe dominare il mondo non tanto per una sorta di «scarsa attitudine al comando» come si direbbe in gergo militare – di certo non è di quella che il paese a partito unico difetta – e non solo a causa della caparbia resistenza degli Stati Uniti a cedere lo scettro del comando – determinati come sono a mantenere saldamente e a ogni costo la posizione –, ma anche perché non esistono, almeno fino a questo momento, molte delle condizioni necessarie perché ciò possa accadere. O meglio, perché ciò possa accadere senza precipitare in un conflitto armato che assumerebbe dimensioni mondiali.
Secondo Liang le tre condizioni minime che una grande potenza dovrebbe soddisfare per dominare il mondo sono: la forza materiale, l’aspirazione al riconoscimento internazionale e un sufficiente sostegno alle politiche di governo sia a livello interno che estero. Per forza materiale egli intende «l’idea che una grande potenza possa sopravvivere a un disastro naturale o a una catastrofe causata dall’uomo grazie al proprio vantaggio geografico o alla sua grande popolazione»; l’aspirazione al riconoscimento internazionale si baserebbe invece sul senso di responsabilità, radicato nell’identità di ogni grande nazione, che la porterebbe ad assumersi i maggiori oneri nella governance del mondo; per sostegno internazionale, infine, Liang intende la fiducia che il resto del mondo ripone nelle grandi potenze affinché forniscano leadership autorevoli e contribuiscano a mantenere stabile l’ordine globale. La Cina potrebbe soddisfare solo la prima di queste condizioni. Liang ritiene che ci siano diverse ragioni per cui la Cina non è pronta per governare il mondo: esistono visioni troppo divergenti tra chi governa e la gente comune su molte questioni di carattere economico e sociale, la classe dirigente rifiuta di accettare i valori dell’ordine liberale, come democrazia, libertà e stato di diritto, ma soprattutto «alla Cina manca una ‘mentalità da grande potenza’ in grado di ispirare il mondo. I cittadini di una grande potenza dovrebbero preoccuparsi del benessere e della prosperità delle persone sia in patria che all’estero. Ci si aspetta che le grandi potenze siano disposte a dare di più e prendere di meno, piuttosto che operare su una rigorosa valutazione di costi-benefici. Ma la Cina non è pronta a dare di più. La Cina offre aiuti esteri in base a benefici reciproci piuttosto che cercare di promuovere il multilateralismo. La politica degli aiuti esteri, più spesso che no, incontra una feroce opposizione in Cina. E, per complicare ulteriormente le cose, sta aumentando il nazionalismo all’interno della comunità di Internet, una tendenza che probabilmente porterà all’isolamento della Cina dal mondo piuttosto che a una maggiore integrazione. Quindi, anche se potrebbe essere arrivato il momento che la Cina si assuma il peso delle responsabilità globali in un’ottica di partenariato, la Cina non è ancora pronta a diventare una grande potenza».
Si tratta di una visione lucida e onesta, priva di spunti demagogici e propagandistici, che ci consente di guardare con maggiore chiarezza alla realtà cinese, ammettendone la complessità, al di là di ogni pregiudizio e condizionamento ideologico. Si consideri che dal 2016 la situazione si è ancor più complicata, che il governo cinese si è fatto sempre più esplicito rispetto ai propri obiettivi e assertivo sia all’interno del paese sia nelle relazioni con il resto del mondo, che Xi Jinping ha accentrato tutto il potere politico e militare nella propria persona, come ai tempi di Mao Zedong, e che, di conseguenza, gli spazi per coltivare un’autentica «mentalità da grande potenza» si sono andati ulteriormente restringendo. Le cause di questo processo sono certamente in parte di natura congiunturale e geopolitica. In larga misura, tuttavia, esse vanno ricercate nel fatto che il Partito comunista cinese e la classe politica al governo che il Partito esprime – selezionata attraverso il rigido filtro di aspri confronti e lotte intestine, anche cruente – hanno deciso di privilegiare gli aspetti più conservatori e garantisti del potere politico al vertice, risultato dell’audace quanto inedita fusione a freddo di ingredienti apparentemente inconciliabili: il rafforzamento dell’ideologia maoista di stampo marxista-leninista, che nell’era di Jiang Zemin e Hu Jintao era andata sempre più allontanandosi dal sentimento popolare; il recupero dell’ideologia imperiale di stampo confuciano, essenziale per ritrovare la propria identità storica, rilanciare il sentimento nazional-patriottico, ristabilire il controllo centralizzato sui mezzi di produzione e sulla società, e rafforzare l’apparato militare per rilanciare le ambizioni egemoniche di stampo imperiale che avevano mantenuto per secoli la Cina al centro del mondo civile; il ritorno a un capitalismo di stato più centralizzato, dopo un periodo di relativa liberalizzazione e apertura. Si tratta di un’ideologia ibrida e totalitaria che difficilmente può concorrere alla realizzazione di uno stato moderno che intenda proporsi come modello di buon governo, portatore di valori di pace e armonia e di un benessere vantaggioso per tutti, divenendo artefice di un nuovo ordine mondiale «più giusto, equo e razionale» e, soprattutto, più «democratico» e allettante di quello liberal-democratico.