Quando il mattone crolla, chi ha i soldi investe nell’arte. Così la Cina è diventato il principale mercato d’arte del pianeta e le sue case d’asta fanno ormai concorrenza a Christie’s e Sotheby’s. Ma fanno pensare i loro rapporti con l’esercito e le quotazioni dei pezzi gonfiati. L’inchiesta di China Files.
Il principale concorrente delle rinomate case d’asta Christie’s e Sotheby’s "parla cinese" e "indossa la divisa". Beijing Poly International Auction, nata soltanto sette anni fa, è già il terzo grossista globale di opere d’arte, seguito da China Guardian, numero due in Cina. Nel 2011 ha fatturato 1,36 miliardi di euro attraverso l’organizzazione di sole sei aste – in media 227 milioni di euro ad asta- e ora, aperti uffici a New York e Hong Kong, si appresterebbe a fare il suo debutto in borsa.
L’obiettivo conclamato di Poly è quello di "cercare, acquistare e riportare in patria varie antichità sparse per il mondo". Poly Group ha chiesto la restituzione di due pezzi mancanti della fontana del Palazzo d’Estate, saccheggiate dalle truppe britanniche e francesi nel 1860, dopo essere riuscito a recuperare quattro dei dodici originali. Il 3 giugno 2012 ha concluso una mega vendita con "Landscape in Red", opera del pittore cinese, Li Keran, acquistata per oltre 293 milioni di yuan (quasi 36 milioni di euro) da un anonimo compratore di Pechino.
Successi che, stando a quanto affermato dal gruppo, riflettono l’ottima condizione di salute del mercato dell’arte cinese, ma che per molti è stato raggiunto soltanto grazie agli stretti rapporti che legano Poly al governo. Quello della terza casa d’aste al mondo è un business che si regge sulla vendita di pezzi approvati dallo Stato. E avere legami con il governo nel Regno di Mezzo non è roba da poco, tanto che di fatto Poly Group rappresenta una specie di "ministero delle aste", costituendo una piattaforma d’acquisto obbligata per tutti i musei cittadini e regionali.
In Cina la cosa è di dominio pubblico, in Occidente forse un po’ meno: Poly Auction è costola della China Poly Group Corporation, gruppo di proprietà statale nato nel 1984 per il commercio di armi, e che oggi si occupa anche di real estate, energia, demolizioni, nonché di cultura. Come dichiarato a Forbes da Nancy Murphy, avvocato esperto di diritto dell’arte, "Poly è il ‘braccio d’asta’ dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLA)". Mentre Murphy ammette la possibilità che il PLA abbia scorporato la casa d’asta, e che pertanto questa sia legalmente un’entità autonoma, quanto scritto sul sito web del gruppo è una dichiarazione d’intenti che dissipa qualsiasi dubbio: "siamo la casa d’asta dell’Esercito Popolare di Liberazione. Il nostro obiettivo è quello di riportare l’arte del popolo in Cina", si legge sulla home page.
In effetti, Poly sembra aver preso vita dalla necessità di ricondurre a casa i "tesori" delle dinastie Ming (1368-1644) e Qing (1644-1911), sottratti all’epoca dell’aggressione straniera, cavalcando l’onda di un nazionalismo che cova dal tempo delle Guerre dell’oppio. Allo stesso tempo, la sua ambizione internazionale -della quale sono sintomo le nuove sedi di Hong Kong e New York- la accomuna in qualche modo agli Istituti Confucio, per i detrattori di Pechino "cavalli di Troia" del soft power cinese nel mondo. E certamente i rapporti che la legano a doppio filo al PLA non aiutano a farne un esempio di trasparenza.
Per chi non lo sapesse, l’esercito in Cina non fa capo al ministero della Difesa, ma è sotto il diretto controllo della Commissione Militare Centrale, organo del Partito e pertanto soggetto a dinamiche opache. Fin dall’inizio della politica delle riforme e dell’apertura, il PLA mostrò subito un certo fiuto per gli affari, tanto che molti tra i primi capitalisti cinesi a lanciarsi nel business transnazionale indossavano la divisa. Alla fine degli anni ’90, l’impero commerciale dell’Esercito valeva 50 miliardi di yuan (oltre 6 miliardi di euro), e tutt’oggi come allora, nonostante il monitoraggio sempre più serrato da parte del governo per arrestare il pericoloso binomio armi-denaro, il PLA continua ad essere ad alto rischio corruzione.
Non desta stupore, quindi, l’opinione diffusa che il ricavato degli acquisti fatti da Poly vada a oliare la macchina militare del Dragone. Non solo. Come mette in evidenza Forbes, la casa d’asta più famosa della Cina avrebbe anche una certa familiarità con il racket, oltre ad essere sospettata di gonfiare i prezzi e manipolare le vendite di oggetti falsi. Secondo Murphy, infatti, circa l’80% dei pezzi presentati da Poly e da altre rispettabili case d’asta cinesi, quali Guardian, è da considerarsi fake. Una tendenza che ha registrato una netta crescita negli ultimi dieci anni e che oggi interessa non solo l’antiquariato, ma anche l’arte contemporanea.
Poly si difende così: "La chiave del nostro successo è il grande supporto dello Stato, che assicura forti risorse finanziarie ed elevata credibilità" ha dichiarato a Le Figaro Jia Wei, direttrice della sezione Modern and Contemporary Art di Poly, sottolineando che il gruppo è nato "in un momento perfetto". "Dal 2000 l’interesse per l‘arte contemporanea non ha smesso di crescere. L’attaccamento delle persone al denaro e al successo sta gradualmente lasciando il posto alle emozioni e alla cultura" ha dichiarato Jia.
In un ottica meno ottimistica, ma ben più realistica, l’assalto al mercato dell’arte è da attribuirsi, piuttosto, alla recessione globale e alla perdita di appeal del mattone, appesantito da nuove e più sostanziose tasse per sgonfiare la bolla speculativa. "I cinesi hanno molti soldi e vogliono investire. I mercati mondiali sono in discesa e l’arte è il nuovo investimento che va per la maggiore" ha commentato Huang Hung-jen, scelto da Poly per aprire l’ufficio di Taipei, per via della sua decennale esperienza nelle case d’asta di Taiwan. La campagna anti-corruzione, lanciata dal neo segretario del Partito Xi Jinping, e l’inasprimento delle sanzioni contro l’evasione e i reati finanziari hanno spinto i ricchi cinesi a nascondere i loro soldi il prima e il meglio possibile. "Comprano meno case, macchine e gioielli, e pompano il loro denaro nell’arte. E’ una tattica molto intelligente" ha commentato Huang.
Stando alle stime di Artprice, con 4,79 miliardi di dollari di vendite, nel 2011 la Cina è diventata il principale mercato d’arte del pianeta, superando Stati Uniti e Regno Unito. E Poly, che ha la sua sede centrale a Pechino, detiene un monopolio virtuale in casa, in quanto i grossisti stranieri, quali Christie’s e Sotheby’s, si sono visti concedere l’ingresso nell’ex Impero Celeste soltanto di recente. I prezzi migliori fanno il resto. "Se hai bisogno di vendere un importante vaso cinese o un dipinto, scoprirai di ottenere un prezzo più vantaggioso da Poly piuttosto che da Christie’s" ha dichiarato ai microfoni del Global Post Sergey Skaterschikov, fondatore di Skate’s Art Market Reserach. Il rischio per chi compra, però, è quello di spendere molto più del valore effettivo delle opere. Perché?
Secondo uno schema ben collaudato di transazioni combinate, Poly – ma pare non sia la sola a prestarsi a queste messe in scena- si accorda con il venditore perché il suo pezzo raggiunga un determinato prezzo. Chi vende offre quanto stabilito con la casa d’asta, fissando un nuovo (falso) valore all’opera. Alla fine -come spiegato da Murphy- il venditore, in realtà, pagherà solo una piccola commissione al grossista, mentre il finto acquisto farà accrescere il valore del pezzo fino a dieci volte quello effettivo. A questo punto il venditore potrà provare a rimpiazzare l’opera ad un prezzo più alto, o, come spesso accade in Cina, a regalarla a qualche funzionario invece della tradizionale mazzetta. Un ottimo modo per alimentare la spirale corruttiva senza lasciare traccia. "E’ un governo comunista e un governo corrotto e pertanto non vuole che rimangano prove cartacee, con il rischio che qualcun’altro le intercetti. Ma quando invece regali a qualcuno un rotolo, nessuno potrà dire si tratti di una tangente da cinque milioni di dollari" ha spiegato a Forbes una fonte che ha chiesto di rimanere anonima.
Sembra che il sistema riportato sopra controlli anche l‘art exchange, una borsa in cui gli investitori acquistano azioni di opere d’arte o quote di fondi di investimento, in previsione di una rivendita. Le ripercussioni della pratica messa in atto da Poly oltrepassano la Muraglia. Succede, infatti, che colossi del settore ben più rispettabili, si accodino alle stime del gruppo cinese, prendendole come punto di riferimento per quotare opere simili; così che persino il valore di pezzi battuti, per esempio da Sotheby’s, rischierà di essere ragionevolmente messo in discussione.
Nonostante i sospetti diffusi, il modus operandi poco ortodosso di Poly rimane tutto da dimostrare. Da parte sua, il gruppo cinese nega ogni accusa, ostentando (a parole) "onestà" ed "equità" nei confronti dei propri clienti. Ma se per i collezionisti e gli appassionati Poly costituisce un investimento ad alto rischio, per gli uomini d’affari -che comprano i pezzi per poi regalarli allo Stato- la casa d’asta è un ottimo canale attraverso il quale compiacere Pechino. Lo sa bene Stanley Ho, magnate del gioco d’azzardo di Macao, che nel 2007 ha sborsato circa 8,9 milioni di dollari per un bronzo della dinastia Qing, poi donato al museo privato di Poly di Pechino. L’acquisto, per quanto esoso, riuscì ad assicurare ai suoi 17 figli nuove licenze per l’apertura di altri casinò, consentendo a Ho di difendere il proprio impero delle case da gioco minacciato dall’avanzata della statunitense Las Vegas Sands Corporation, presente nell’ex colonia portoghese dal 2004.
*Alessandra Colarizi- Classe ’84, bazzica l’Estremo Oriente dal 2005, anno in cui decide di chiudere per sempre i tomi di diritto privato e aprire quelli di cinese. Si iscrive alla Facoltà di Studi Orientali dell’Università di Roma La Sapienza e nel 2010 consegue la laurea magistrale. In questi anni coltiva il suo amore per cineserie e simili, alternando lo studio sui libri a frequenti esplorazioni attraverso il continente asiatico. Abbandonata la carriera accademica, approda alla redazione di AgiChina24, dove si diletta con i primi esperimenti giornalistici, passa per lo Studio Legale Chiomenti di Pechino, infine rimpatria. Poco incline alla vita stanziale, si dice che sia già pronta a ripartire.