La carne di maiale e l’inflazione cinese

In by Simone

Il costo della carne di maiale in Cina ha toccato il picco storico: 23 yuan al chilo (2 euro circa). E i dati del ministero del Commercio sono stati addirittura rivisti al rialzo da JP Morgan, che il primo luglio fissava il prezzo a 25,5 yuan.
Uno scenario che riporta alla memoria gli aumenti del 2008, quando a far lievitare i costi fu un’epidemia di sindrome riproduttiva e respiratoria suina. Nell’ultimo anno il rialzo è stato di oltre il 57 per cento. Secondo una ricerca dell’Accademia cinese per le scienze sociali, nel 2010 il suino ha occupato, da solo, un terzo del paniere riservato ai generi alimentari. Non a caso l’acronimo inglese Cpi è spesso reso non come indice dei prezzi al consumo, bensì come indice del consumo di porco.

Ma a salire non è stata soltanto la carne di maiale, ingrediente principe della cucina cinese. Trainata dai rincari del cibo (+14,4 per cento) l’inflazione a giugno ha toccato il 6,4 per cento. Il dato più alto degli ultimi tre anni, superando anche il 5,5 per cento registrato lo scorso maggio. Il trend è globale, secondo i dati della Fao a giugno il costo degli alimenti sul mercato è schizzato del 39 per cento. In Cina buona parte dei rincari è dovuta alle recenti inondazioni che hanno fatto salire riso e soia. Il livello dei prezzi nell’ultimo mese è andato oltre le peggiori previsioni degli analisti, secondo cui il tasso di inflazione si sarebbe attestato attorno al 6 per cento.

Con un picco del 6,2 per cento previsto da un sondaggio tra gli addetti ai lavori dell’agenzia finanziaria Bloomberg. Se il costo dei beni non alimentari è aumentato del 3 per cento in un anno, a preoccupare la dirigenza cinese restano comunque gli alimenti, tra i temi più sensibili per la popolazione e pertanto in grado di alimentare tensioni sociali. Non a caso la necessità di trovare un equilibrio tra il contenimento dell’inflazione e il mantenimento della crescita economica è stata al centro del discorso tenuto venerdì dal governatore della Banca cinese del Popolo, Zhou Xiaochuan.

L’istituto centrale è corso ai ripari alzando il costo del denaro di 25 punti base. I tassi di interesse sui prestiti bancari sono saliti al 6,56 per cento, mentre quelli sui depositi sono stati ritoccati al 3,50 per cento. E al quinto rialzo in otto mesi potrebbero seguirne di nuovi, è l’opinione degli analisti, secondo cui tali misure potrebbero avere effetto nella seconda metà dell’anno accompagnate da un calo del costo del petrolio. Ottimismo non condiviso da tutti gli economisti. Secondo il China Security Journal, alla fine, il tasso d’inflazione per il 2011 dovrebbe attestarsi tra il 4,5 e il 5 per cento. Comunque al di sopra del limite del 4 per cento oltre il quale, a detta del governo, potrebbe essere compromessa l’armonia sociale.

Ad allontanare lo spettro di un’inflazione incontrollata era stato a inizio giugno il primo ministro Wen Jiabao, noto per la vicinanza alle istanze del popolo, con un editoriale sul Financial Times. Era la vigilia della sua visita in Europa, segnata dalla crisi della Grecia, e il premier rassicurava sulla capacità cinese di frenare i rincari e tenere sotto controllo la crescita economica che, secondo le stime della Banca mondiale, quest’anno sarà del 9,3 per cento. In calo rispetto al 9, 7 dell’anno passato, per scendere ancora all’8,7 nel 2012. Un rallentamento che potrebbe rivelarsi un’opportunità per Pechino, utile a ripensare la propria politica di sviluppo.

È questa l’opinione del professore Pei Minxin, del Claremont McKenna College, espressa in un editoriale sul quotidiano di Singapore, Straits Times, e ripresa dal China Daily. Rallentando, il governo cinese potrebbe puntare più sulla qualità della propria economia e sulla riduzione delle disuguaglianze.

[Anche su Il Riformista]