La bugia del fenomeno Bric e la crescita indiana

In by Simone

Il Washington Post ha pubblicato un articolo prezioso e dettagliato, un pezzo che dovrebbe essere stampato e appeso in tutte le redazioni del pianeta e rimandato a memoria ogni volta che si cade nella tentazione di parlare di Brics o, più recentemente, dell’India che cresce più della Cina. Una mistificazione della realtà che non rende giustizia a New Delhi e, anzi, rischia di danneggiarla come pubblicità ingannevole.Il pezzo firmato da Matt O’Brien si intitola «China is the only emerging market that matters» e per chi si occupa di cose asiatiche con un minimo di consapevolezza, leggerlo fino in fondo equivale a una boccata d’aria fresca dopo mesi di miasmi giornalistici e anni di costruzione del fenomeno Bric.

Oggi possiamo dirlo finalmente: era tutta un’invenzione, una macchinazione architettata da Goldman Sachs per attrarre investimenti verso Brasile, Russia, India e Cina, proiettando l’emergere di un nuovo blocco internazionale formato da paesi che non avevano – e non hanno – nulla a che spartire, se non la promessa di una crescita economica irresistibile.

Che oggi Matt O’Brien descrive come «una bugia», poco palese all’inizio, ma ormai assolutamente lampante.

Passando in rassegna lo stato comatoso delle prime due consonanti di Bric – col Brasile «nella peggiore recessione dal 1930 ad oggi» e la Russia fiaccata dal crollo del prezzo del greggio e dalle sanzioni internazionali – O’Brien dedica un micro passaggio all’India che «sta andando piuttosto bene», ma che ancora non riesce ad attirare quegli investimenti stranieri vitali per la realizzazione di infrastrutture che le permettano di competere col gigante cinese.

La frase di O’Brien acquista più peso se inserita nel contesto politico-economico degli ultimi due anni qui in India, dove il primo ministro Narendra Modi ha martellato costantemente l’opinione pubblica – nazionale e non – con la propria campagna di attrazione degli investimenti «Make in India» e con una sfilza di progetti avveniristici destinati a mutare il panorama socio-economico indiano: «smart cities» che spunteranno in ogni angolo dell’Unione, «internet highways» che collegheranno tutte le città indiane a una grande e unica rete a banda larga, elettricità in tutti i villaggi, conti correnti per tutti, centri di formazione e di impiego per plasmare la forza lavoro del futuro, programmi di pulizia delle città per un’India «green» e via dicendo.

Tutte promesse che, a due anni dall’insediamento di Modi, rimangono ancora tali, senza che nulla lasci intendere una manifestazione plastica della rivoluzione modiana in tempi brevi. C’è ancora tanto da fare, soprattutto per quanto riguarda le riforme di semplificazione burocratica e tassazione che dovrebbero invogliare investitori di tutto il mondo a portare soldi nel nuovo miracolo economico indiano. Ma se è innegabile che l’India, in effetti, stia «andando piuttosto bene» (con investimenti che arrivano alla spicciolata, ma arrivano) e stia segnando una crescita costante del Pil (con tutti i limiti dell’illusione aritmetica), è vero anche che la dicitura «l’India sta cresce più della Cina» ricalca esattamente lo stesso meccansimo dei Bric alla fine degli anni ’90: un espediente lessicale per descrivere una realtà che non esiste, ma che convince e indirizza parte degli investimenti internazionali mostrando una destinazione rosea e «risolta» che l’India, ad esempio, ancora non è.

Questo non per sminuire le ambizioni, sacrosante, di New Delhi, e senza negare che il potenziale di crescita indiano sia tra i più promettenti del globo, ma la cartina al tornasole dell’India del 2016 – fuori dalle retoriche del «miracolo economico» – rimane quella segnata dall’ultima legge di stabilità varata dal governo: un programma economico realistico che pone l’accento non sui vezzi futuristici di Modi, ma sulla condizione preoccupante dei contadini, sulle infrastrutture che mancano (e che New Delhi dovrà costruire probabilmente coi propri soldi) e sul problema macroscopico del mercato del lavoro incapace di assorbire l’offerta sterminata della giovane forza-lavoro indiana.

Sul rapporto con la Cina, credo basti dare un’occhiata al grafico che O’Brien ha allegato al pezzo. Altre parole non servono.

[Scritto per Eastonline]