Quando parliamo o scriviamo di «nuova via della seta cinese», non dovremmo riferire questo termine soltanto a un territorio fisico che ha bisogno di continuità o prossimità geografica, ma dovremmo ormai considerarlo come uno spazio economico-finanziario e geopolitico, senza alcun confine.
Del resto l’idea imperiale di Cina è sempre stata riferita a «tutto quanto sta sotto al cielo» e la nuova via della seta pare spingere al massimo le dimensioni di questo «cielo». Inoltre, è bene ricordarlo, il motore della nuova via della seta sono due istituti, una banca di investimenti (Aiib) e un fondo per lo sviluppo (Silk Road Fund), che non si fermano certo di fronte a distanze geografiche.
Anche se quando si può si cerca di colmarle, come nel caso del Cile, con il quale la Cina condivide da tempo l’idea di procedere con una fibra ottica «transpacifica» capace di collegare i due paesi.
Si tratta solo di un piccolo un esempio di qualcosa di più grande che sta avvenendo: la via della seta, infatti, nel 2018 è arrivata in America Latina. Quando, nel 2013, Xi Jinping aveva tratteggiato le prime linee guida del progetto One Belt One Road, ci si era concentrati soprattutto sulle tratte da cui originava il nome scelto da Xi, quindi quella zona euroasiatica da sempre al centro di grandi scambi commerciali.
Poi, con il tempo, Pechino ha cominciato a inserire sotto «l’ombrello Obor» ben altro: innanzitutto ha definito la necessità di una via della seta polare (proprio nei giorni scorsi il premier finlandese era a Pechino per parlare di questo con la dirigenza cinese), poi anche i progetti africani sono finiti dentro al calderone della via della seta. Ora tocca all’America latina.
Come già accaduto per l’Africa, naturalmente, molti progetti erano già in corso: l’arrivo di Pechino nel continente latino americano non è certo recente, perché sono anni che la Cina intesse trame economiche e politiche – soprattutto con alcuni paesi. Ricordiamo che la Huawei – ad esempio – ha costruito il proprio impero partendo proprio dall’America latina.
In realtà, visto che ormai l’argomento «Cina e America Latina» comincia ad avere letteratura, si ritiene l’inizio di questo processo di avvicinamento a Obor sia partito il novembre de 2017, quando a entrare ufficialmente all’interno del progetto è stata Panama. Poco dopo a gennaio, a Santiago del Cile, si è tenuto il Forum Cina-Celac (Comunità degli Stati dell’America latina e dei Caraibi). Il Ministro degli Esteri cinese Wang Yi all’epoca aveva incoraggiato gli Stati dell’America Latina e dei Caraibi ad espandere il loro commercio con la Cina e a sostenere il multilateralismo.
Prospettiva realizzata. Come ha scritto una delle più importanti analiste delle strategie economiche (e militari) cinesi, la professoressa June Teufel Dreyer, nel gennaio scorso «Wang Yi aveva affermato che la Bri (altro nome con il quale si definisce la via della seta, in questo Belt and Road Initiative) inietterebbe nuova energia e aprirà nuove prospettive. Considerato l’impressionante crescita della Repubblica popolare cinese e le difficoltà che molti paesi latino americani stavano vivendo, non sorprende che l’offerta di Wang sia stata accolta con entusiasmo. Se portata a termine, l’integrazione della regione Lac nella Bri, quest’ultima comprenderà il 65% della popolazione mondiale e il 40% del PIL mondiale».
Come detto, Panama è stato il primo paese a inserirsi nella Bri, subito dopo aver rotto i legami diplomatici con Taiwan nel novembre 2017, «ma altri 14 paesi hanno firmato in seguito, l’ultimo è stato l’Ecuador nel dicembre 2018».
I paesi che orbitano ormai in modo stabile intorno alla Cina sono Venezuela, Bolivia ed Ecuador. «Paesi più grandi come Argentina, Brasile, Colombia, Messico e Perù – ha scritto la professoressa – non hanno ancora aderito». Ma naturalmente tutto può cambiare: Bolsonaro, ad esempio, pur essendosi esposto molto contro Pechino in campagna elettorale accusando la Cina di «comprarsi il Brasile», in realtà dopo l’elezione e con ben altro tono, ha incontrato subito l’ambasciatore cinese.
In questi impegni reciproci la postura cinese è sempre la stessa: da un lato propone investimenti per costruire strade, porti, autostrade, aeroporti, dall’altro in questo modo favorisce l’arrivo rapido sui nuovi mercati della propria merce e un altrettanto arrivo più rapido in Cina delle importazioni.
Naturalmente gli investimenti cinesi sono prestiti che i paesi sudamericani dovranno restituire, come accade in Africa. Ad ora questa è la principale accusa che viene effettuata alla Cina, ovvero quella di mettere a repentaglio i paesi nei quali investe, strozzandoli con la «trappola del debito». E a questo proposito vedremo come Pechino si comporterà nel ruolo di esattore: proprio in Sudamerica – con il Venezuela – ha tenuto un atteggiamento piuttosto energico.
Ma Pechino sa bene quanto sia cangiante ogni stagione di alleanze, pertanto il tempo della verifica ancora non è arrivato.
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.