Nel 2009, la Repubblica islamica è diventata uno dei primi paesi al mondo a riconoscere legalmente i transgender, Ma tutt’oggi i khwaja sira non hanno vita facile. Secondo la Trans-Action Alliance del Pakistan, dal 2015 a oggi, solo nella provincia settentrionale di Khyber Pakhtunkhwa 91 donne trans sono state uccise, mentre ammontano a 2.000 i casi di violenza. Una nostra analisi in collaborazione con Gariwo Onlus.
“Women, life and liberty“. Lo slogan risuona tra la folla. Non siamo in Iran, bensì a Karachi, città del Pakistan situata sulla costa orientale del Mar Arabico, dove il 20 novembre centinaia di persone hanno manifestato per celebrare l’International Transgender Day of Remembrance. La ricorrenza mondiale contro la transfobia è sentita più che mai nel paese a maggioranza musulmana, dove la comunità transgender fronteggia discriminazioni quotidiane.
Nell’ex colonia britannica, dove fattori religiosi si sovrappongano allo storico conservatorismo della Corona, e l’omosessualità è ancora reato, il terzo genere – considerato una categoria a sé – ha saputo raccogliere alcune vittorie sul piano normativo. Ma le maggiori tutele legali non sono bastate a correggere i perseveranti stigmi sociali.
Secondo stime del ministero della Salute, nel 2015 in Pakistan vivevano almeno 150.000 khwaja sira, parola urdu utilizzata per indicare la comunità transgender. Nel 2009, la Repubblica islamica è diventata uno dei primi paesi al mondo a riconoscere legalmente il terzo genere, consentendo a chi non si identifica né maschio né femmina di ottenere specifici documenti di identità. Una sentenza della Corte Suprema già nel 2012 assicurava ai khwaja sira diritto di voto. Ma è nel 2018 che è avvenuta la vera svolta, quando con la promulgazione del Transgender Persons Act la comunità transgender – almeno sulla carta – ha ottenuto protezioni estese. La legge vieta la discriminazione nelle scuole, sul lavoro, sui mezzi pubblici e durante le cure mediche. Obbliga inoltre il governo a rispettare la separazione dai cisgender nelle strutture detentive e a tutelare il diritto di voto, di assumere incarichi statali, o di accettare eredità in conformità con il genere prescelto.
Grazie al nuovo quadro normativo, i khwaja sira hanno ottenuto maggiore visibilità sui mass media: nel 2018 Marvia Malik è diventata la prima conduttrice transgender a comparire sulla tv pakistana. Ma tutt’oggi i khwaja sira non hanno vita facile. Lo dimostra il tira e molla con i censori che lo scorso novembre ha preceduto l’uscita nei cinema di Joyland, primo film pakistano candidato al Festival di Cannes. Una commedia che tratta il tema della sessualità e vede la partecipazione dell’attrice transgender Alina Khan. Quel che è peggio stupri, ricatti e molestie sessuali ai danni dei transgender sono ancora estremamente diffusi nel subcontinente. Gli stessi organizzatori della marcia di Karachi e molti altri attivisti hanno denunciato vere e proprie minacce di morte.
Secondo la Trans-Action Alliance del Pakistan, dal 2015 a oggi, solo nella provincia settentrionale di Khyber Pakhtunkhwa 91 donne trans sono state uccise, mentre ammontano a 2.000 i casi di violenza. Paradossalmente, dall’approvazione della legge gli omicidi contro i transessuali sono persino aumentati. Da allora il Trans Murder Monitoring ne ha rilevati almeno dieci ogni anno.
Il fattore religioso spiega in buona parte la scarsa accettazione nei confronti della comunità khwaja sira. Al netto del dibattito dottrinale ancora in corso, il Corano parrebbe vietare piuttosto chiaramente i rapporti omosessuali. Da mesi i partiti pakistani più conservatori, come il Jamaat e Islami (JI) e il Jamiat Ulema-e-Islam (JUI-F), spingono per una modifica dell’Act, accusato di violare la sharia, la legge sacra islamica. Su Twitter hashtag come “emendiamo la legge” e “abroghiamo la legge volgare” sono diventati trending topic. Mushtaq Ahmad Khan, senatore del JI, sostiene che il diritto all’autodeterminazione sessuale minacci la famiglia spianando la strada al matrimonio gay. In Pakistan le relazioni omosessuali non solo sono illegali. Sono persino perseguibili con la pena di morte.
La fede nell’Islam spiega però solo in parte la diffusa intolleranza nei confronti dei transgender. Anche la disinformazione concorre a fomentare odio e violenza. Negli ultimi anni si è fatta largo la convinzione che la transessualità sia il prodotto di un’ingerenza culturale occidentale. In realtà è vero l’esatto contrario. Nel subcontinente il terzo genere vanta una storia antica, tanto che in India il termine khwaja sira identificava gli eunuchi di corte e i castrati già in epoca Moghul (1526- 1707). Piuttosto, come rimarcano gli attivisti, l’origine della transfobia affonda le radici nel Criminal Tribes Act, introdotto dagli inglesi nel 1871, ovvero quando il Pakistan era ancora una colonia britannica. Un dato confermato dalla diffusa omofobia negli ex protettorati della Corona: stando ai dati del governo, il 63% dei paesi membri del Commonwealth criminalizzano l’omosessualità rispetto a una media mondiale del 35%.
Come spesso accade, la discriminazione è un tunnel senza uscita: emarginati socialmente, i khwaja sira faticano ad accedere all’istruzione. Con un tasso di analfabetismo del 42%, buona parte della comunità trans pakistana è costretta a ricorrere all’accattonaggio, o a mestieri degradanti e malvisti, come il ballo o la prostituzione. Proprio di recente la Federal Shariat Court (FSC) ha espresso seria preoccupazione per la condizione dei bambini transgender, abbandonati dalle loro stesse famiglie, esposti ad abusi, e facili vittime di criminali e pedofili.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Garwo]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.