«La barca che cola a picco» chiede aiuto ai privati

In Asia Meridionale, Economia, Politica e Società by Matteo Miavaldi

Il sistema sanitario indiano, stando alle linee guida sancite dalla costituzione, è caratterizzato da una gestione mista sia tra governo federale e governi locali, sia tra pubblico e privato. Dovrebbe, in teoria, garantire la copertura gratuita a chiunque abbia un reddito medio sotto la soglia di povertà, ovvero meno di due dollari al giorno. Questa, almeno, la teoria.

Nella pratica, l’intero comparto della sanità nazionale soffre delle medesime diseguaglianze che dividono le famigerate «due Indie»: quella dalla classe media urbana in su, nella parabola ascendente dell’arricchimento post riforme economiche degli anni Novanta, e quella – decisamente più numerosa – ancora in attesa che il benessere generato in cima alla piramide sociale si diffonda tra gli strati più in difficoltà.

Nella «prima India» esistono poli d’eccellenza medica privata in grado non solo di curare i ricchi autoctoni, ma anche di attrarre migliaia di pazienti dall’estero, specie dai Paesi del Golfo. I turisti medici in entrata sono ingolositi da un eccellente rapporto qualità-prezzo per operazioni chirurgiche svolte da personale altamente specializzato, pagando una frazione di quanto richiesto in strutture di pari grado situate in Occidente. Le centinaia di milioni di indiani della «seconda India» sono invece costrette a rivolgersi a strutture pubbliche spesso fatiscenti, sovraffollate e in costante carenza di personale.

Secondo gli ultimi dati divulgati dal governo, il rapporto tra dottori allopatici e cittadini in India è tra i peggiori al mondo: ce n’è uno ogni undicimila persone. L’Organizzazione mondiale della sanità ne consiglia uno ogni mille; in Italia ne abbiamo quattro ogni mille.

Di senso inverso la tendenza tra i cosiddetti «dottori AYUSH», i praticanti registrati all’omonimo ministero per la salvaguardia e la diffusione delle medicine alternative (ayurveda, yoga, unani, siddha, omeopatia), in costante crescita grazie a campagne di promozione stilate ad hoc dall’esecutivo guidato da Narendra Modi, autonominatosi campione di una certa idea di «indianità» ben oltre i confini dello sciovinismo.

È stato lo stesso Modi però, nel 2018, a introdurre un programma governativo estremamente ambizioso. Denominato Ayushman Bharat, il piano prevede l’apertura di oltre 150mila «health and wellness centers» in tutto il Paese e, soprattutto, copertura sanitaria gratuita fino a 500mila rupie all’anno (meno di settemila dollari, che in India sono tanti) a famiglia per il 40 per cento più povero della popolazione indiana, pari a mezzo miliardo di persone. Nonostante l’iniziativa sia stata accolta con entusiasmo dagli osservatori internazionali, la ricaduta pratica sul campo lascia ancora molto a desiderare. A fine 2019, sempre secondo il governo, dei 500 milioni di aventi diritto solo 3,9 milioni di persone hanno usufruito della copertura sanitaria governativa. Il che, purtroppo, non significa abbiano ricevuto cure gratuite. Scrive Soutik Biswas di BBC, prendendo ad esempio la situazione in uno degli stati più poveri del’India, il Chhattisgarh: «Negli ospedali pubblici i pazienti hanno finito per doversi comprare i medicinali dalle farmacie private, semplicemente perché in ospedale avevano finito le scorte. Inoltre, spesso è stato necessario corrompere dottori e infermieri.

Negli ospedali privati i pazienti di sono sentiti dire che era impossibile fornire determinate cure al prezzo fissato dal governo e che era necessario pagare la differenza in contanti». Mantenendo una spesa destinata alla sanità intorno all’1 per cento del Pil – tra i peggiori al mondo – e posizionatasi al 145esimo posto su 195 nella classifica internazionale dei sistemi sanitari stilata da The Lancet nel 2018, l’India sembra aver deciso di scommettere sul privato.

Alla fine del 2019 il think tank governativo Niti Ayog, descrivendo il sistema sanitario nazionale come una «barca che cola a picco», ha esplicitamente chiesto l’aiuto del settore privato per portare a regime le strutture sanitarie private nelle città terza fascia, con l’obiettivo di allargare l’accesso alle cure nelle zone più lontane dalle metropoli.

L’idea sarebbe quella di appaltare ospedali già esistenti, e fatiscenti, ad aziende private che forniscano metà dei posti letto come servizio pubblico, e metà a «prezzo di mercato». Ovvero: mettere le due Indie nella stessa corsia ospedaliera e raccontarsi che riceveranno lo stesso trattamento di qualità. La prima pagando, la seconda gratis.

C’è un dottore in sala?

[Pubblicato su il manifesto]