L’Oriente di Trump

In by Gabriele Battaglia

Come i Paesi dell’Asia orientale e meridionale hanno accolto la vittoria di Trump e cosa cambia nei loro rapporti con l’America. Cina, India, Giappone, Corea, in una carrellata di reazioni del giorno dopo. In Jurassic Park, Steven Spielberg faceva dire al matematico Ian Malcom la celebre frase: «Una farfalla batte le ali a Pechino e a New York arriva la pioggia invece del Sole». Riduzione cinematografica della teoria del caos, la frase può essere oggi tranquillamente ribaltata, dopo che dal «pivot to Asia» dell’amministrazione Obama si passa all’incognita Trump.

L’estremo Oriente si è svegliato all’indomani del voto statunitense riflettendo sulle migliori strategie per affrontare la nuova fase. Se Hillary Clinton avrebbe rappresentato la continuità e quindi la prevedibilità, nei palazzi del potere asiatico si cerca ora di ridefinire politiche estere, interne e commerciali con lo scopo di sfruttare al meglio il cambio della guardia a Washington, senza possibilmente farne le spese. Al di là dei convenevoli di rito per accogliere Trump tra l’elite globale, l’annunciato protezionismo e la probabile stretta sull’immigrazione del neo inquilino dello studio ovale preoccupano i più, mentre il grande punto interrogativo sulla politica estera finirà per ridefinire investimenti militari e relazioni bilaterali.

Oggi, più che mai, se una farfalla batte le ali a Washington, cicloni investono i mari d’Oriente, monsoni investono il subcontinente indiano e terremoti sconquassano il Giappone. Ecco una carrellata di reazioni dai principali Paesi dell’Asia orientale.

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