Il 28 marzo la Russia ha posto il veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu decretando lo scioglimento del gruppo di esperti incaricato di monitorare il rispetto delle sanzioni internazionali comminate alla Corea del Nord. La Cina è stata l’unico paese ad astenersi dal voto. Cautela che dimostra la complessità del rapporto con Pyongyang
Il 28 marzo la Russia ha posto il veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu decretando lo scioglimento del gruppo di esperti incaricato di monitorare il rispetto delle sanzioni internazionali comminate alla Corea del Nord. Il mandato attuale scadrà alla fine di aprile e il voto contrario di Mosca implica che il team non verrà rinnovato.
Motivando la decisione, l’ambasciatore russo all’Onu Vassily Nebenzia ha dichiarato che le nazioni occidentali stanno cercando di “strangolare” la Corea del Nord e che le misure ritorsive hanno perso “rilevanza”. “Collusione” è invece il termine utilizzato da Washington, che ha accusato Mosca di spalleggiare il regime di Kim Jong-un minando così “cinicamente la pace e la sicurezza internazionale”. Solo pochi giorni prima il direttore dei servizi segreti russi Sergei Naryshkin si era recato a Pyongyang per discutere “delle crescenti azioni di spionaggio e di complotto da parte delle forze ostili”. Il tutto nell’attesa che Putin raggiunga il Nord nei prossimi mesi.
Il Cremlino non ha tutti i torti a giudicare inefficaci le misure internazionali che aveva appoggiato fino a pochi anni fa. Da quando il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha cominciato a imporre le prime sanzioni nel 2006, la Corea del Nord si è dotata dell’atomica e i test missilistici hanno raggiunto quota 80 solo nell’ultimo biennio. Certo, come sostenuto dal gruppo dell’Onu nel suo report più recente, il governo di Kim Jong-un ha in parte compensato le sanzioni sferrando attacchi informatici che gli hanno permesso di raccogliere 3 miliardi di dollari tra il 2017 e il 2023. Ma è piuttosto evidente che la sopravvivenza delle ambizioni nucleari del Nord è, ugualmente, ricollegabile all’aiuto della Russia.
Strettissimi in epoca sovietica, i rapporti con Mosca si sono raffreddati negli anni 2000 contestualmente all’ascesa economica della Cina, diventata il primo partner commerciale di Pyongyang. Ma l’arrivo al potere di Kim nel 2011 ha coinciso con il tentativo del regime nordcoreano di assumere una maggiore autonomia, anche con l’obiettivo di indebolire alcune fazioni interne vicine a Pechino. La Russia è parsa l’alternativa più ovvia (se non l’unica) per portare avanti una strategia di diversificazione dei partenariati. Con la guerra in Ucraina, lo stesso deve aver pensato Mosca, a sua volta sempre più dipendente dalla Cina. Vistosi negare il supporto militare di Xi Jinping, a settembre Vladimir Putin ha accolto Kim col tappeto rosso. Visita suggellata dalla cessione di tecnologia missilistica e aerospaziale russa in cambio di munizioni e altro materiale bellico nordcoreani. Solo pochi giorni fa riprese satellitari hanno documentato le prime spedizioni marittime dirette al Nord di prodotti petroliferi russi da quando nel 2017 l’Onu ha introdotto sanzioni mirate per tagliare le forniture di carburante a Pyongyang. Violazione su cui sembra stesse indagando proprio il team che Mosca ha sabotato.
In tutto ciò la Cina sta a guardare. Nel vero senso della parola considerato che è stata l’unico membro del Consiglio di Sicurezza a essersi astenuto dal voto il 28 marzo. Come Mosca, anche Pechino – pur avendole approvate per anni – è sospettato di aver contribuito ad aggirare le sanzioni internazionali contro il Nord. Motivo per cui ci si aspettava un allineamento all’ostruzionismo russo. Se così non è stato, è perché oggi le relazioni con il regime di Kim sono molto più complicate di quanto non traspaia dai frequenti scambi diplomatici. Non solo perché col tempo è venuta meno la fiducia reciproca. Condividendo 1.300 chilometri di frontiera, la Cina ha sempre temuto che a lungo andare le sanzioni avrebbero portato al collasso del Nord e all’arrivo di rifugiati oltreconfine. Allo stesso tempo, senza misure contenitive, probabilmente, l’arsenale nucleare nordcoreano crescerebbe a un ritmo persino più sostenuto, destabilizzando la regione. A differenza della “amicizia senza limiti” con la Russia, l’alleanza con la Corea del Nord ha valenza militare. Fattore che richiederebbe un intervento armato di Pechino in caso di guerra. Evitare un’escalation nella penisola coreana è quindi anche nell’interesse della Cina.
Sempre per calcolata prudenza, Pechino non ha mai risposto pubblicamente all’invito diramato da Mosca a settembre per condurre esercitazioni navali trilaterali con Pyongyang. Gli organi d’informazione statali cinesi hanno accusato i media occidentali di aver gonfiato questa notizia per alimentare una “mentalità da guerra fredda”. Più diretto il think tank statale Institute for Global Governance Studies che, bocciando la proposta di Putin, ha rimarcato come le alleanze “guidate da un’opposizione binaria tra ‘il nemico e il sé’” non sono in linea con la Global Security Initiative, l’iniziativa “pacifista” lanciata dalla Cina nel 2022 per risolvere le crisi internazionali con “mezzi politici”.
La complessità del rapporto con Mosca rende la posizione cinese anche più scivolosa. Da una parte Pechino apprezza il sostegno fornito da Pyongyang alla Russia, che le permette di continuare a restare ufficialmente “neutrale” in Ucraina senza rischiare di vedere Putin indebolirsi eccessivamente. La Cina conta sulla Russia per riformare l’attuale ordine globale a trazione occidentale, ma preferisce delegare a Kim il “lavoro sporco” per non compromettere le proprie relazioni con l’Europa. Al contempo, il consolidamento della complicità tra Mosca e il Nord rischia di indebolire ulteriormente il controllo cinese su Pyongyang (presunto o reale), sfruttato in passato come jolly nei colloqui con Washington.
Proprio la variabile americana giustifica in buona parte la cautela mostrata da Pechino in sede Onu. Da una prospettiva cinese, infatti, le crescenti sinergie tra Putin e Kim rischiano di giustificare un incremento della presenza degli Stati Uniti nell’Asia-Pacifico. Ugualmente, rendono più necessario un riavvicinamento tra Corea del Sud e Giappone, i primi Paesi nel mirino dei missili nordcoreani: oltre a costituire l’ossatura delle alleanze asiatiche di Washington, i due nemici storici – per collocazione geografica – hanno la capacità di complicare notevolmente i piani cinesi per una futura riunificazione di Taiwan. Finora Pechino si è dimostrato poco incline a concretizzare un’invasione militare dell’isola. Figuriamoci se muore dalla voglia di imbracciare le armi per difendere Mosca o Pyongyang.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Il Fatto Quotidiano]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.