Kim e Moon si giocano (quasi) tutto sul disgelo che passa da Singapore

In Uncategorized by Redazione

l summit del 12 giugno è cruciale per Moon, che punta a costruire una penisola unita economicamente ed emancipata dagli Usa. Anche Kim ha bisogno dei dividendi della pace per recuperare consenso. Trump potrebbe dare il via con il vertice a un cambiamento storico degli equilibri asiatici.


Il summit storico tra Corea del Nord e Stati Uniti è ancora in forse, ma le dichiarazioni al riguardo si susseguono. La Casa Bianca ha comunicato di procedere comunque alla sua organizzazione, mentre il presidente sudcoreano Moon Jae-in ha fatto capire che l’incontro non solo potrebbe tenersi, ma che potrebbe addirittura essere allargato anche alla Corea del Sud.

E la Yonhap — agenzia di stampa sudcoreana — ha rilasciato una nota secondo la quale funzionari di Pyongyang si sarebbero recati a Pechino lunedì 28 maggio per preparare il meeting di Singapore (a conferma del peso di Pechino in questa fase).

La notizia sul potenziale allargamento alla Corea del Sud dell’incontro di Singapore consente una serie di riflessioni sul meeting in sé e sulle possibilità o meno che possa esserci davvero. Il secondo incontro al confine tra le due Coree tra Moon e Kim — e le dichiarazioni sulla possibilità che ce ne possano essere altri e con maggiore frequenza — ha evidenziato, secondo gli analisti, un fatto ben preciso: chi si gioca tutto su questo incontro è proprio Moon Jae-in.

Partiamo dunque da Seul: Moon fin dalla sua campagna elettorale ha lasciato intendere la possibilità di aprire al Nord — una ripresa della cosiddetta sunshine policy — sottolineando l’importanza non solo di un processo di pace tra le due Coree, ma anche di una denuclearizzazione e una più generale distensione della penisola capace di riattivare anche rapporti commerciali tra i due Paesi. Il sogno di Moon, probabilmente, è quello di una penisola di nuovo unita, quanto meno da un punto di vista economico, e magari con un assetto federale (e capace di favorire i ricongiungimenti delle famiglie separate dal post conflitto).

La notizia della lettera con cui Trump ha stracciato il negoziato con il Nord ha messo in forte imbarazzo (e di sicuro ha infastidito) proprio Moon, che neanche era stato avvisato del colpo di mano trumpista: non a caso a Seul i falchi hanno cominciato a criticare la presidenza. Moon — infatti — insieme a un recupero di Pyongyang nell’alveo dei Paesi presentabili ha chiaramente l’intenzione di modificare anche la politica estera del proprio Paese, liberandola dalla stretta alleanza con gli Stati Uniti. Si tratta di un azzardo, giustificato però dalle potenzialità economiche di una distensione: nelle settimane passate, infatti, sia Cina, sia Russia avevano sottolineato la volontà di partecipare alla vita economica di una Corea del Nord finalmente accettata ai tavoli del negoziato.

Il secondo personaggio per il quale il meeting sembra fondamentale è naturalmente Kim Jong-un. Il dittatore nordcoreano si è affrettato a incontrare Moon, dopo aver risposto alla lettera di Trump riaprendo di fatto la possibilità del meeting di Singapore. Kim del resto lo aveva fatto capire ampiamente: una volta considerato il proprio Paese nucleare la sua priorità è recuperare il consenso popolare migliorando le condizioni di vita dei nordcoreani. E questo sarà possibile solo se arriverà una distensione, che potrà significare allentamento delle sanzioni e ripresa di rapporti economici alla luce del sole con Cina, Russia e Corea del Sud e magari proprio con gli Stati Uniti.

Secondo quanto riportato dai media sudcoreani Moon Jae-in avrebbe sottolineato le difficoltà attuali del leader nordcoreano: «Penso — ha detto Moon il giorno dopo l’incontro a sorpresa con Kim al confine — che ciò che preoccupa Kim sia la possibilità di non avere completa fiducia nella promessa degli Stati Uniti di porre fine alle sue ostili relazioni con il Nord e garantire la sicurezza del suo regime in caso di denuclearizzazione».

«D’altra parte — ha proseguito Moon — il presidente Trump mi ha chiarito durante il nostro summit [a Washington, martedì scorso] che non solo avrebbe posto fine al rapporto conflittuale con il Nord nel caso dovesse scegliere la denuclearizzazione, ma che gli Stati Uniti sarebbero disposti ad aiutare il Paese a raggiungere la prosperità economica». Kim dunque ha la necessità che la situazione si sblocchi e sembra chiaro che potrebbe entrare in grave crisi qualora questa distensione — e l’incontro di Singapore — non dovesse avvenire.

Di sicuro Kim non ha intenzione di essere il “nuovo Gorbacev” come parte della stampa sudcoreana ha lasciato intendere. Tanto Pyongyang, quanto Pechino, vedono il crollo dell’Urss come il pericolo maggiore e ritengono che proprio la debolezza politica di Gorbacev abbia facilitato quel fracasso storico. Kim non ha intenzione di mollare la presa, non ha intenzione di indebolire il proprio potere o democratizzare la propria linea politica. Ha però disperato bisogno di aiuti economici, di provare a sperimentare aperture economiche in pieno stile cinese.

È a Pechino che Kim guarda, non certo all’Unione sovietica della perestrojka. E del resto in questo senso un risultato l’ha già ottenuto: Washington non ha mai posto alcuna condizione sul suo potere, anzi Trump ha riconosciuto di fatto la leadership di Kim.

In ballo — infatti — non c’è il potere politico di Kim. In ballo in tutta questa vicenda c’è un cambiamento storico degli equilibri asiatici.

E arriviamo a Trump: il presidente Usa sa bene che Moon è disposto ad alleggerire l’alleanza con gli Usa per poter aver campo libero nelle relazioni commerciali asiatiche (in particolare con la Cina). Ma sa anche che un conto è avere di fronte solo Kim, un conto è avere di fronte Kim e Moon (e Xi Jinping che pur defilato sta agendo con molta determinazione in questa fase).

Si tratta di un cambiamento di prospettiva non da poco che potrebbe portare dunque a un effettivo incontro a Singapore. A quel punto il summit potrebbe anche solo essere propedeutico a scelte successive: intanto significherebbe trovarsi intorno a un tavolo e capire davvero il perimetro delle possibilità sul campo, e darebbe a Trump la possibilità di passare in ogni caso alla storia come uomo di pace (e viste le caratteristiche psicologiche del personaggio in questione potrebbe essere un riconoscimento non da poco per il tycoon).

Stabilire poi una road map per la denuclearizzazione della Corea — con in cambio la sicurezza del regime di Kim, magari sostenuto dal ritiro del Thaad — significherebbe attestare un cambiamento in atto, ma rimandare nel tempo la verifica di tutta una serie di condizioni, lasciando che i primi accordi e investimenti in Corea del Nord da parte di potenze straniere vadano via via a cambiare il quadro, chiudendo — di fatto — l’isolamento di Kim Jong-un.

di Simone Pieranni

[Pubblicato su Easwest]