Indonesia. Internamente il suo progetto economico liberista ha trovato solo proteste
All’inizio di novembre il presidente indonesiano Jokowi volava a Glasgow per la Cop 26 dopo aver appena ricevuto da Mario Draghi il passaggio di consegne dall’Italia all’Indonesia per la presidenza del G20.
Formalmente la presidenza indonesiana è scattata in dicembre e per Joko «Jokowi» Widodo, al suo secondo mandato come capo di Stato di uno dei più popolosi Paesi del pianeta, il G20 è una bella scommessa nonostante i grattacapi di casa: dall’emergenza senza fine Covid-19 a una legge «omnibus» di liberalizzazione dell’economia che il presidente ha firmato proprio durante i giorni di Glasgow ma che poi è stata in parte rigettata dalla Corte costituzionale che, il 25 novembre, l’ha rinviata al parlamento dando ai deputati due anni di tempo per emendarla.
Nondimeno, Jokowi si vuole giocare la partita: alla viglia del suo insediamento ufficiale ha promesso una «crescita inclusiva, centrata sulle persone, rispettosa dell’ambiente e sostenibile» come impegno principale dell’Indonesia per la sua leadership nel G20. E ha affermato che il G20 dovrebbe essere il motore per lo sviluppo di un ecosistema che guidi la collaborazione e l’innovazione. Per Jokowi l’Indonesia «vuole che il G20 dia l’esempio e guidi il mondo nella gestione cooperativa dei cambiamenti climatici e dell’ambiente in modo sostenibile eseguendo azioni concrete». Jokowi vorrebbe un G20 catalizzatore di una ripresa verde con una «gestione del cambiamento climatico che dovrebbe essere all’interno di un quadro di sviluppo sostenibile». Ma al di là delle belle parole, quali sono i nodi che il presidente deve affrontare? Cominciamo da casa dove lavoratori e ambientalisti sono sul piede di guerra.
La sua «legge omnibus» che dovrebbe dare una svolta all’economia ha fatto infuriare il sindacato ma anche gli ambientalisti che questa estate avevano già fatto ricorso su una controversa legislazione sulle miniere approvata lo scorso anno e considerata una violazione della protezione ambientale a vantaggio delle compagnie minerarie. Anche la «legge omnibus», superliberista, avrebbe le sue ricadute sull’ambiente in un Paese che è ancora una grande riserva naturale del pianeta. Tutti grattacapi da sistemare se l’Indonesia dovrà dar l’esempio di una svolta verde. Sul piano internazionale le sfide sono tante: la baldanzosa avanzata statunitense in Asia condita dalle schermaglie con la Cina, attore che nella regione ha un certo peso.
E, ancor più vicino a casa, la presidenza dell’Asean, l’associazione di dieci nazioni del Sudest asiatico, passata dal Brunei nelle mani del cambogiano Hun Sen: premier autoritario, fedele alleato dei cinesi ma, soprattutto, aperturista nei confronti della giunta birmana con cui Giacarta è ai ferri corti anche perché i golpisti hanno fatto fallire una prima mediazione indonesiana affidata alla ministra Retno Marsudi.
Ma c’è anche un dossier che Jokowi potrebbe sfruttare meglio di come ha fatto Mario Draghi, inventore del G20 Afghanistan, una buona idea con gambe corte a cominciare dal mancato invito a Pakistan e Iran. Jokowi ha buoni rapporti con tutti i Paesi musulmani, radicali o moderati che siano, e può contare su due organizzazioni islamiche del suo Paese che assieme contano una settantina di milioni di aderenti. L’Indonesia ha già lavorato sul tema «Talebani» e potrebbe farne un dossier forte proponendosi come mediatore nell’intricata vicenda del riconoscimento, delle garanzie sull’aiuto umanitario, nella protezione dei diritti della società civile. Più che il verde in economia, che al momento non è il suo forte, il presidente indonesiano potrebbe puntare sul verde islam, il colore preferito dai musulmani.