La Cina è uno dei principali paesi responsabili dell’inquinamento globale, ma anche uno dei principali attori nella lotta al cambiamento climatico. Zhou Qing è un attivista cinese e regista del documentario Sanmenxia, pellicola sul disastro ambientale del progetto della diga voluta da Mao Zedong.
“La più grande minaccia per la società cinese in tema di diritti ambientali è la mala gestione del governo”. Non usa mezzi termini Zhou Qing, attivista e documentarista cinese impegnato su questioni di contestazione sociale e di salvaguardia dei diritti umani in Cina, nel parlare delle responsabilità di Pechino in tema di clima e ambiente. Nato a Xi’An nel 1964 e incarcerato per due anni nel 1989 per il suo coinvolgimento nelle manifestazioni di piazza Tiananmen, oggi vive a Berlino ma continua a guardare alla Cina nelle parole e nelle immagini, con particolare attenzione alla giustizia climatica. Lo ha fatto nel suo saggio La sicurezza alimentare in Cina e nel suo documentario Sanmenxia sul disastro della diga voluta da Mao Zedong a fine anni Cinquanta. E lo fa portando il racconto della sua esperienza da attivista nelle università e nei forum di tutta Europa. Da ultimo al World Congress for Climate Justice dello scorso ottobre.
“Il governo cinese controlla la quasi totalità delle risorse del paese senza mai dover dare conto a nessuno. È difficile per la società civile fare la propria parte per sensibilizzare in ambito di diritti ambientali”, racconta Zhou a Gariwo. “Soprattutto, il sistema di governance cinese segue il modello della ‘leadership collettiva, con responsabilità collettiva’, cosa che tradotta in termini di protezione dell’ambiente vuol dire che nessuno si prende le proprie responsabilità per eventuali disastri o per l’inquinamento”, continua.
Parafrasando: se tutti sono responsabili, nessuno lo è. Si tratta di un atteggiamento che la Cina ripropone anche sul palcoscenico globale ai suoi interlocutori in tema di ambiente. Alla Conferenza sul clima delle Nazioni Unite (Cop), per esempio, la Cina partecipa rivendicando l’etichetta di “paese in via di sviluppo”, per sottolineare il proprio status di “vittima” invece che annoverarsi tra i “responsabili” nel grande gioco del cambiamento climatico. È solo una delle grandi contraddizioni della Rpc in tema ambientale. Primo paese al mondo per capacità produttiva da fonti rinnovabili, ma ancora fortemente dipendente dal carbone. Leader globale nella tecnologia utile alla transizione energetica (a partire dai pannelli fotovoltaici arrivando alle tanto discusse batterie per i veicoli elettrici), ma ancora poco sensibile al nesso causale tra il cambiamento climatico e il 2023 record di alluvioni e temperature estreme nel paese.
“L’accentramento del controllo del Partito comunista cinese in tema ambientale ha impedito alla cittadinanza di farsi sentire e soprattutto di informarsi”, spiega Zhou. “Le proteste in campo ambientale sono sempre meno a causa della repressione delle autorità”. Lontani sono i tempi in cui la Cina scendeva in piazza per il clima. Come ricorda l’attivista, nel 2012 a Ningbo, nello Zhejiang, la cittadinanza si era fermamente opposta alla costruzione di una centrale nucleare. 50mila persone si erano mobilitate e il progetto era stato fermato. “In questi giorni si ridiscute dell’apertura di quello stesso progetto e quando mi sono confrontato con i miei colleghi attivisti in Cina, sono rimasto sorpreso nello scoprire che non ne sapevamo nulla”. Sullo stato dell’attivismo ambientale in Cina Zhou rimane però ottimista: “Nonostante le pressioni del governo c’è chi continua a lavorare sulla sensibilizzazione cittadina, dando particolare attenzione ai giovani e cercando di coinvolgerli nelle loro attività. È un tipo di resistenza civile che si fa strada in mezzo alle crepe, ma che sopravvive e che non farà che crescere. Manca solo il supporto internazionale”.
La crisi climatica è diventata un tema urgente nella quotidianità cinese, non solo in chiave strategica per finanziare settori utili alla ripresa economica del paese, ma anche perché i suoi effetti risultano sempre più evidenti. Dalle inondazioni devastanti come quelle a Pechino della scorsa estate, alla penuria di acqua delle riserve dell’Himalaya, fondamentali per gli impianti idroelettrici cinesi, che secondo le stime saranno esaurite entro il 2100, gli effetti sul breve e sul lungo termine sono sotto gli occhi di tutti.
“La mancanza di supervisione e trasparenza nella governance in generale è fatale per i diritti umani in Cina. Lo si è visto durante la pandemia da Covid-19 ma anche in questi giorni con gli incendi nelle foreste del Guizhou, che i media statali stanno sminuendo per non allarmare la popolazione”, sottolinea ancora Zhou.
La priorità per i cittadini cinesi, secondo l’attivista, rimane però legata ad aspetti più pratici. La qualità dell’aria, sulla quale Pechino ha fatto enormi progressi negli ultimi anni anche su pressione dei cittadini. E quella del cibo, che in Cina risulta particolarmente sensibile a seguito di scandali come l’intossicazione da latte in polvere per 54mila neonati risalente al 2009 fino ai “wet market” tanto discussi in periodo pandemico. “C’è un modo di dire in Cina che vuole che la religione del popolo cinese sia quella legata al cibo, non a un Dio”, racconta Zhou. “La cosa importante per i cittadini cinesi, non solo per chi fa attivismo climatico, è che non si ripetano i disastri del passato in nome di grandi progetti infrastrutturali che depauperano il territorio delle proprie risorse e costringono a una migrazione forzata la cittadinanza locale come accaduto nel progetto della diga di Sanmenxia sul fiume Giallo, e successivamente nella realizzazione della Diga delle tre gole sul fiume Azzurro”.
Sull’obiettivo della Cina di arrivare alla decarbonizzazione entro il 2060 invece, Zhou ha poche speranze: “Si tratta di un falso mito. I cinesi hanno un legame anche filosofico con l’ambiente, vivendo secondo il precetto di ‘unione tra cielo e popolo’, ma senza una soluzione a problemi sistemici, che ribalti la concentrazione del potere facendolo tornare in mano ai cittadini, non potremo vedere veri progressi, solo rischi di un alto costo ambientale e umano”.
Di Lucrezia Goldin
[Pubblicato su Gariwo]Giornalista praticante, laureata in Chinese Studies alla Leiden University. Scrive per il FattoQuotidiano.it, Fanpage e Il Manifesto. Si occupa di nazionalismo popolare e cyber governance si interessa anche di cinema e identità culturale. Nel 2017 è stata assistente alla ricerca per il progetto “Chinamen: un secolo di cinesi a Milano”. Dopo aver trascorso gli ultimi tre anni tra Repubblica Popolare Cinese e Paesi Bassi, ora scrive di Cina e cura per China Files la rubrica “Weibo Leaks: storie dal web cinese”.