Alla vigilia di Capodanno abbiamo parlato con Badiucao, il Banksy cinese attualmente in auto-esilio in Australia e reduce dal boicottaggio della sua mostra “La Cina (non) è vicina” a Brescia. La nostra conversazione affronta il ruolo della sua arte legato ad un passato di persecuzioni familiari fin dal maoismo, approfondendo le modalità che hanno condotto uno studente di legge a divenire un artista dissidente sotto l’ala di Ai Weiwei, creando progetti artistici che uniscono diritti umani e nuove tecnologie. Soprattutto, il dialogo con Badiucao è fondamentale per capire in che modo la Cina esercita propaganda e censura al di fuori dei propri confini: dalla coercizione e il boicottaggio alle accuse giudiziarie, i pedinamenti e le minacce di morte.
Come hai vissuto il tentativo di Pechino di boicottare la tua esposizione dal titolo “La Cina non è vicina” a Brescia?
Le minacce e il boicottaggio sono ormai costanti nelle mie esibizioni, però devo dire che in italia ho avuto modo di godere di un menù completo di minacce. E’ iniziato tutto con una lettera ufficiale del governo cinese al Museo di Brescia in cui minacciarono di compromettere future collaborazioni. Ho apprezzato molto la reazione di Brescia che nonostante tutto ha deciso di accogliermi, dando un esempio al mondo e opponendosi a Pechino. Il secondo tentativo è avvenuto online, con account legati al governo, che hanno avviato una campagna di odio contro di me. Ci sono stati anche i “soft warnings”, ovvero cinesi che si presentavano alla mostra come sostenitori mentre tentavano di mettermi in guardia sul fatto che in Italia è pericoloso, che “qui la gente muore per strada”. Questo non l’ho ancora detto a nessuno, ma sono stato costretto a dover cambiare albergo ogni giorno durante il mio soggiorno in Italia. A quel punto ho pensato: “Potrei iniziare a lavorare per YELP”.
Che altre esperienze di questo tipo hai avuto? Quale è stata la tua più brutta? In generale accade spesso che nelle scuole o durante conferenze e seminari ci siano persone che urlino per impedire lo svolgimento del convegno, sono frequenti le minacce di morte o che ci siano gruppi di wechat dove si organizzano per contestarmi in tutto il mondo. Una delle peggiori contestazioni avvenne a Bologna, fui attaccato gravemente, ma venni difeso da diversi studenti italiani e cinesi. Io non mi sento anticinese o traditore, io mi ritengo cinese, non lotto per la Cina, ma per i diritti umani di tutti i cinesi e per la libertà di espressione di ognuno.
A proposito di identità, in un recente documentario hai deciso di rivelarla, spiegando ragioni e conseguenze: minacce personali e familiari, mostre cancellate, telefono sotto controllo, invasione domestica e pedinamenti. Dici che il Pcc attende il momento della vendetta quando ci sarà meno attenzione da parte dei media. Cosa intendi? Come hanno fatto a scoprire la tua identità? Come sta ora la tua famiglia?
Mi sono trasferito in Australia nel 2009 e ho iniziato a fare cartoni politici nel 2011. Quando c’era ancora Hu Jintao?Si esatto, quello possiamo dire che fosse un periodo Ok. Meglio di Xi Jinping? Si, c’era molta più libertà digitale, Xi Jinping invece non smette mai di fornire materiale per chi fa satira o per gli artisti, è come Trump. Lo paragoni a Winnie the Pooh e Winnie the Pooh viene censurato. Esatto, questo però non significa che il governo non volesse controllare maggiormente internet anche nel 2011, soprattutto dopo l’arresto del premio nobel Liu Xiaobo. I social erano solo una cosa nuova e non regolata.
Ho richiesto la cittadinanza australiana e rinunciato forzatamente a quella cineseper essere maggiormente libero e protetto. Sono riuscito a celare la mia identità per 7 anni ma attraverso le tracce lasciate sui social e dai conoscenti, o tramite i miei legami con Ai Weiwei a Berlino, sono stati uniti i punti e alla fine è emersa la mia identità. Questo ha esposto la mia famiglia in Cina a diversi rischi, così ho annullato la mostra a Hong Kong e deciso di fare un documentario (anche il regista è stato minacciato) in cui ci mettevo la faccia. Intendi questo con “finché l’attenzione dei media…”? Si, perché più produco sul piano artistico e più sono protetto dall’opinione pubblica. La mia famiglia è ancora in Cina ma preferisco non sentirli per evitare che siano considerati complici o essere usati per fare pressione. Quindi ti hanno costretto a non sentire la tua famiglia? No, è stata una mia scelta. Una scelta libera? No, anzi, mi fa soffrire”.
Di recente hai affermato: “Voglio estendere la definizione di arte. Mi considero un artista; essere un attivista è solo un effetto collaterale dell’essere un artista in Cina”. Come sei passato dal studiare giurisprudenza all’arte? Come hai conosciuto Ai Weiwei e in cosa ti ha ispirato?
Provengo da una famiglia di filmmaker che durante la Campagna dei 100 fiori maoista a fine anni ‘50 fu duramente perseguitata, quindi ho sempre voluto fare l’artista ma l’arte non era ben vista a casa. Ho seguito il volere della famiglia inizialmente, ovvero fare l’avvocato, ma poi ho conosciuto Ai Weiwei su Twitter. Lui, nonostante sia molto celebre, è anche molto disponibile e alla mano, mi ha dato molti consigli, finché non iniziai a lavorare con lui e si sviluppò una magica amicizia. Ai Weiwei è un’ispirazione per i diritti umani, non solo quelli cinesi ma anche quelli europei.
Parli infatti spesso dei problemi del governo cinese, ma vivendo in Australia che idea ti sei fatto delle criticità dei sistemi occidentali liberal-democratici?
Ai non usa internet per promuovere la propria arte, fa vera e propria arte con l’internet e ha parlato per esempio del dramma dei migranti in Europa. Penso che se l’Europa vuole davvero che vengano rispettati i diritti umani nel mondo deve fare di più in casa propria, anche perché ogni volta la Cina viene accusata di mancanze, la propaganda risponde che gravi violazioni persistono anche in occidente. Questo non significa che non bisogna continuare a denunciare le violazioni in tutto il mondo. Il tema dei diritti umani è universale. Tuttavia, sto pensando anche di trasferirmi e andare via dall’Australia per vedere se altri posti sono maggiormente aperti. Anche qui i legami tra governo australiano e cinese impongono spesso l’autocensura o mi impediscono di accedere a determinati spazi o di sviluppare certe iniziative.
In occasione dell’anniversario di Tiananmen hai avviato “una campagna contro Twitter, richiedendo di accogliere la mia proposta di creare un emoji per ricordare il massacro di Tiananmen, utilizzando l’immagine del tankman”. Come procede questa iniziativa? In che senso intendi il “non usare internet per promuovere ma fare arte con l’internet”?
La proposta del tankman come emoji è esattamente uno dei tanti modi di fare arte con internet e di portare anche la comunità scientifica e informatica a prendere una posizione. Creare una nuova emoji significa lavorare con il linguaggio Unicode, e ogni anno ci si riunisce per decidere cosa possa essere integrato o rimosso. Inoltre ora sto pensando ad un progetto con gli NFT (non fungible tokens) che permetterebbero di registrare le opere con tecnologia blockchain, in modo che non possono essere modificate, siano riconoscibili, autenticabili e non censurabili.
Cosa pensi dei modi degli utenti internet cinese per aggirare la censura? Quanto è popolare la tua arte nei contesti delle comunità cinesi nel mondo e nelle zone rurali della Cina?
Ci sono tantissimi modi di eludere la censura in Cina, ma bisogna avere le conoscenze base d’inglese o di VPN. Non è da tutti. Alcuni cinesi pensano che io sia un agente della CIA, come detto, anche all’estero la propaganda e la censura arrivano, non solo con accordi ufficiali e intimidazioni, ma anche semplicemente tramite sistemi come Wechat. Se sei un imprenditore che vuole promuovere il turismo ai cinesi deve utilizzarlo, e se sei sgradito avrai problemi. Quindi se si vuole fare business meglio tenere fuori la politica o persino i diritti umani. Inoltre, i cinesi possono avere solo una cittadinanza e molti di quelli che vivono all’estero vogliono rimanere cinesi e mantenere i contatti con il proprio paese. Capisco entrambe le parti, sia chi è più chiuso e chi più aperto. Affrontano anche loro una lotta continua per la propria identità, proprio come me.
Tra i tanti modi, uno che sta diventando obsoleto è la lingua dei marziani, non l’ho mai usato nella mia arte ma nella vita quotidiana. Questo tipo di modalità non riguardano tanto i VPN, quanto la possibilità di capirsi solo tra determinati gruppi di persone, anche questo è un modo di ricercare la propria identità, soprattutto di coloro che provenienti in masse dalle zone rurali si riversano e vengono risucchiati dalle catene di montaggio, e utilizzano stili personali molto appariscenti e linguaggi personalizzati per riconoscersi e affermarsi.
Prima hai detto che vorresti trasferirti. Perché non pensare all’italia? Come percepisci il nostro paese? Saresti interessato a fare maggiori iniziative qui?
Si ho pensato a Europa e Usa, perché no. L’Italia è bellissima, sono rimasto diverse settimane in residenza a Brescia, ho lavorato con italiani. Da voi c’è una ricca cultura, siete pieni di storia ovunque, strati di strati di storia uno sull’altro come in Cina, ci vedo simili in questo. Penso però che da una parte sia buono perché possa essere un grande stimolo, dall’altra magari impedisce di vedere l’innovazione o intrappola la creazione e può essere più difficile affermarsi nell’essere circondato da tanta imponenza. La cosa che mi ha colpito di più è però vedere così tanta architettura importante ricoperta non tanto da street art, ma da Tag. Tag su palazzi e architetture storiche. La ritieni una mancanza di rispetto o street art? Per me è vandalismo, ma nei giorni ho iniziato a capirne sempre più la cultura anche se difficile spiegarlo. Non vedo l’ora di tornare a trovarvi.
Intervista pubblicata su ArTribune e su The Diplomat (English version)
Classe 1989, Sinologo e giornalista freelance. Collabora con diverse testate nazionali. Ha lavorato per lo sviluppo digitale e internazionale di diverse aziende tra Italia e Cina. Laureato in Lingue e Culture Orientali a La Sapienza, ha perseguito gli studi a Pechino tra la BFSU, la UIBE e la Tsinghua University (Master of Law – LLM). Membro del direttivo di China Files, per cui è responsabile tecnico-amministrativo e autore.