In un episodio della serie «Electric Dreams», ispirata ai racconti di Philip K. Dick, una fabbrica completamente in mano a intelligenza artificiale e automazione, continua a produrre per una popolazione senpre più esigua, dopo una presunta guerra nucleare.
NEL 2015 A DONGGUAN, città che potremmo definire come massimo esempio di quella che è stata la «fabbrica del mondo», luogo dove si produceva la maggioranza delle merci che abbiamo conosciuto come «made in China», ha lanciato la prima fabbrica senza umani, all’interno di un più vasto progetto definito dalle autorità cinesi come Replacing Humans with Robots (jiqi huanen). Gli effetti di questa corsa all’automazione, sancita dal progetto voluto da Xi Jinping, «Made in China 2025», pare stia già dando i primi frutti, non proprio positivi per i lavoratori cinesi.
Secondo un articolo del Financial Times, «L’automazione ha sostituito i posti di lavoro fino al 40% dei lavoratori in alcune aziende cinesi negli ultimi tre anni, evidenziando gli effetti della spinta di Pechino per diventare una superpotenza mondiale nell’intelligenza artificiale». Nell’articolo si sottolinea come in alcuni centri fondamentali per la passata propensione all’esportazione cinese, sia già stato tagliato il 30-40% della loro forza lavoro in seguito all’automazione, secondo quanto emerge da un rapporto della China Development Research Foundation.
NON SOLO, PERCHÉ IL SOGNO cinese di Xi Jinping, ovvero una Cina con sempre più automazione, uso dei Big Data e intelligenza artificiale, fornisce altri esempi degni del genio di Philip Dick. Nel maggio del 2018 a Shanghai ha aperto la prima «banca-robot», senza impiegati umani.
Come riporta il Guardian, «Xiao Long, o “Little Dragon”, non è il tipico impiegato: è un robot, protagonista del primo sportello bancario completamente automatizzato e privo di risorse umane. In qualità di custode della banca, parla con i clienti, accetta carte bancarie, controlla i conti e può rispondere alle domande di base. Dopo una breve chat iniziale con Xiao Long, i clienti passano attraverso porte elettroniche dove vengono scannerizzati i loro volti e le loro carte d’identità».
Perfetto esempio della Cina attuale: intelligenza artificiale, riconoscimento facciale come elemento sufficiente per entrare nella banca e consentire al robot di avere tutte le informazioni necessarie. E ancora: una delle app di maggior successo in Cina, quotata in Borsa e ormai pronta a sbarcare in tutto il sud est asiatico attraverso una partner con la potentissima app Grab, Ping An Good Doctor, collega gli utenti «con una rete di 40.000 medici in tutta la nazione tramite un’applicazione mobile». L’app utilizza un assistente AI per gestire le domande generali dei pazienti. Come ha scritto Asia Nikkei Review, «Ciò consente ai medici di dedicare più tempo alla diagnosi. Il modello di business della società ha attratto investimenti da fondi sovrani di Singapore, dal Canada Pension Plan Investment Board, dalla statunitense BlackRock e dal fondo giapponese SoftBank Vision».
SIAMO DI FRONTE A UN SALTO quantico: le nuove tendenze del mondo del lavoro nello stadio più avanzato del capitalismo vanno ormai cercate in Cina; sarà all’interno della potenza cinese che il mondo del lavoro – tanto quello tradizionale che dovrà fare fronte all’avanzata dell’automazione, quanto quello ultra precario e deregolamentato della gig economy – troverà nuovi strumenti e nuovi conflitti da affrontare.
Come riassumono perfettamente i due professori Yu Huang e Naubahar Sharif in From ‘Labour Dividend’ to ‘Robot Dividend’: Technological Change and Workers’ Power in South China, «Fino alla crisi finanziaria globale del 2008, la crescita economica della Cina era radicata saldamente nella sua massiccia forza lavoro, un “bonus” associata a un relativo aumento dell’età e del tasso di partecipazione della forza lavoro. Tuttavia, la tradizionale modalità di produzione di fascia bassa, ad alta intensità di lavoro e orientata all’esportazione della Cina, ha incontrato un collo di bottiglia a seguito della crisi finanziaria. Nel 2014, l’economia cinese ha registrato una crescita del Pil del 7,4%, il suo tasso di espansione più lento dal 1990.
IL GOVERNO E I MEDIA hanno iniziato a difendere il “bonus robot” che ha enfatizzato gli sforzi per utilizzare macchinari e robot automatizzati al posto del lavoro umano. Il premier Li Keqiang, presentando la politica “Made in China 2025”, ha promesso che il governo avrebbe migliorato l’industria manifatturiera cinese nel giro di un decennio attraverso la “produzione intelligente” supportata da fabbriche automatizzate e Big Data per sviluppare un settore orientato all’innovazione e a valore aggiunto».
SI TRATTA DI UN PROCESSO irreversibile, perché la Cina non produce robot e automazione solo per le proprie fabbriche: si tratta ormai di un nuovo modello per l’esportazione. Se questo pone problemi in termini geopolitici – basti pensare alla guerra dei dazi con gli Usa con Trump che mira proprio a colpire quel settore – il processo in atto pone problematiche soprattutto ai lavoratori cinesi.
NELL’IPOTIZZARE questa immane trasformazione, infatti, la leadership cinese non ha tenuto in alcun conto né lavoratori, né sindacati, accantonando le problematiche legate all’espulsione dal mercato di un alto numero di operai, così come non pare essersi occupata della gestione – contratti e diritti – delle nuove occupazioni che automazione, app e intelligenza artificiale creeranno.
Quanto alla prima questione, è ormai all’ordine del giorno. Come scrive in Robot Threat or Robot Dividend? A Struggle between Two Lines sul sito internet Chinoiresie Huang Yu, ricercatrice alla Hong Kong University of Science and Technology, «Poiché l’industrializzazione robotica della Cina ha appena iniziato la sua drammatica espansione, non c’è stata ricerca aggregata sui potenziali impatti della robotizzazione sui lavoratori. Tuttavia, la mia ricerca ha rilevato che, tra le quattro aziende che possedevano dati comparativi sull’occupazione prima e dopo l’automazione, il tasso di riduzione della forza lavoro nella linea di produzione oscillava tra il 67 e l’85% (Huang e Sharif 2017). Inoltre, sebbene i rappresentanti dei media e delle imprese abbiano cercato di minimizzare l’impatto dell’automazione sulla forza lavoro, descrivendo durante i colloqui una “carenza di manodopera” già in corso, è importante notare che all’inizio del 2017 il piano di sussidi di Dongguan aveva già bruciato 190.000 lavoratori, una cifra che supera di gran lunga la carenza di manodopera stimata in 100.000 segnalata nel 2015»
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.