Il punto è capire come Pechino intenda continuare la sua storia. Quale nuova cultura esprime la capitale della Cina? Quella imposta dall’alto o quella che sorge spontaneamente dall’interazione tra tutte le sue nuove anime? Le risposte arrivano, alcune paradossali. E sono Inside Beijing.
– Da dove vieni?
– Dallo Shaanxi.
– Sei venuto a Pechino da lavoratore migrante. A Pechino devi prendere anche un po’ di cultura. È la città della cultura, vero? La storia moderna del mondo è nata in Europa, non in Cina. Questa volta l’onda democratica arriva dall’Africa, ti è chiaro?
Un dialogo colto per strada, nel freddo dell’inverno pechinese. L’uomo di mezza età istruisce il giovane lavoratore migrante. La città in movimento e trasformazione mantiene una sua identità erudita, pur nel tono brusco e nella “r” arrotolata del puthonghua doc, il dialetto del nord che è diventato lingua nazionale.
Le Olimpiadi di Pechino – prima dell’Expo di Shanghai – sono state la grande vetrina della Cina che si proponeva su palcoscenico del mondo. Un esperimento riuscito solo in parte: in quel 2008 teoricamente benedetto dalla numerologia – l’8 è numero propizio per i cinesi e i Giochi hanno avuto inizio l’08/08/2008 – il Dragone ha vissuto un terremoto catastrofico nel Sichuan e una rivolta in Tibet. Il primo ha messo in luce i piedi d’argilla del gigante: il crollo di una scuola con relativa strage di alunni ha fatto il giro del mondo; i tentativi dei poteri locali di occultare l’evento e di coprire la speculazione edilizia sottostante hanno amplificato i nefasti effetti del sisma. La rivolta tibetana, avvenuta a marzo, ha scatenato invece un’ondata di critiche internazionali alla Cina, con assalti di attivisti alla torcia olimpica portata da tedofori cinesi (e non) in mezzo mondo.
Inside Beijing | 融入北京, Trailer from claudia lidia greta pozzoli on Vimeo.
Questo tentativo era favorito dal fatto che la proprietà delle vecchie case a corte, già sminuzzate in unità più piccole con le requisizioni maoiste, si era persa in un’infinità di rivoli. Di fatto, una famiglia poteva occupare per decenni una casa e poi essere sloggiata amministrativamente dall’oggi al domani. Quindi nessuno aveva interesse a rinnovare le strutture, tenerle in ordine: tutto era precario. Pur non avendo un attaccamento necessariamente ossessivo alla propria casa, i pechinesi del centro erano tuttavia completamente integrati nella vita dell’hutong, del quartiere, che offriva socialità, identità, protezione, aiuto reciproco. Così, se molti hanno accettato il trasferimento, altri hanno resistito e ne sono nati i primi conflitti.
Oggi, soprattutto dopo il fiorire di cosiddetti “distretti culturali”, di cui il 798 è il più famoso (una ex fabbrica chimica costruita in stile Bauhaus, negli anni Cinquanta, dai “fratelli” della Germania Est), le autorità della città hanno capito che per dare identità alla nuova megalopoli globale si può puntare sulla cultura più che sul mattone o, quanto meno, che le due cose possono andare di pari passo (valorizzandosi reciprocamente). Abbiamo così assistito al trasferimento negli hutong dell’intelligenza creativa: alla contaminazione tra designer e vecchiette; tra localini di tendenza e bettole in cui si friggono chuar (spiedini) all’aria aperta; tra alternativi stranieri e giovani cinesi, spesso altrettanto alternativi (se non di più). Un processo di gentrificazione simile per certi versi a quello vissuto da decine di altre metropoli del mondo, ma con una differenza: qui, gli abitanti originari continuano a essere la maggioranza.
Il punto, ora, è capire come l’antica Camblau di Marco Polo (a proposito, tra i sinologi gira voce che fosse un gran venditore di bufale) intenda continuare la sua storia così unica. Quale nuova cultura esprime la capitale della Cina? Quella imposta dall’alto o quella che sorge spontaneamente dall’interazione tra tutte le sue nuove anime? Le risposte arrivano, alcune paradossali. L’architetto Qi Xin ci rivela che “oggi la Cina non ha cultura” e per questo motivo lui si sente libero di creare liberamente, senza i gravami che pesano sulle spalle dei suoi corrispettivi europei. C’è chi cerca invece nel recupero delle tradizioni più antiche – confucianesimo, taoismo – le risposte alle domande più moderne. Altri ancora si sottraggono al controllo dell’industria culturale di Stato percorrendo strade che si snodano sul confine tra underground e overground: creano riviste, festival, mostre. Lo scrittore Xu Xing dice ridendo: “Il governo non ha nessuna speranza con il suo sviluppo culturale. A meno che non mi faccia ministro della Cultura, si intende”. Tutti fondamentalmente “fanno”. Un atteggiamento che unisce il proverbiale pragmatismo cinese a una nuova, ruspante, consapevolezza: quella di trovarsi al centro del mondo. Un’energia che in Europa, e in Italia soprattutto, abbiamo un po’ perso. Ma forse dipende solamente da quanti soldi ci siano in circolazione.