Perché in Cina le politiche ambientali stentano a decollare? Perché mancano gli incentivi giusti a promuoverle, rispondono alcuni studiosi cinesi. Detta altrimenti, un funzionario locale trae più benefici se inquina piuttosto che se protegge l’ambiente. È un problema politico, finanziario, morale. Per superarlo, ci vuole più trasparenza. L’ennesimo scandalo, denunciato dal Beijing News, è esemplare. Il deserto di Tengger, in Mongolia Interna (cioè quella cinese), è quotidianamente devastato dagli scarichi industriali di alcune aziende chimiche che fanno parte di un locale “parco industriale”: uno di quei quei concentrati di imprese ritenuti di solito il fiore all’occhiello dei governi locali. Sono a rischio le falde del sottosuolo e le immagini diffuse dai media mostrano una spianata ormai nera come la pece.
Naturalmente è partita un’inchiesta. Un anonimo funzionario locale denuncia però il fatto che già nel 2012 una precedente indagine aveva portato alla chiusura di 15 industrie; ma poi il problema è ricominciato come se nulla fosse. “È mancata la supervisione”, dice oggi il signor “Chen”, che si guarda bene dal rivelare il suo vero nome.
Insomma, nonostante le molte norme anti-inquinamento, la Cina non riesce a venire a capo del problema. Si fanno le leggi e le si disattende. Dopo i trent’anni in cui è divenuto fabbrica del mondo importando, oltre alle manifatture, anche l’inquinamento dei Paesi di più antica industrializzazione, il Dragone non sa più come fare marcia indietro.
Perché le politiche ambientali non funzionano?
Perché lo Stato centrale non riesce a farle rispettare. E perché non ci riesce?
Andando a ritroso nel gioco dei perché, troviamo una struttura degli incentivi “perversa”, secondo la definizione della professoressa Ran Ran, della Scuola di Studi Internazionali dell’Università del Popolo di Pechino, che dedica proprio alle politiche ambientali i propri studi.
In breve, i funzionari sono incentivati a boicottare le politiche ambientali piuttosto che a realizzarle.
Non funzionano gli incentivi politici, perché a oggi i quadri locali non fanno carriera attuando le politiche ambientali, bensì, nell’ordine: facendo crescere il Pil; attuando per bene le politiche di sicurezza (cioè evitando “incidenti” e atti destabilizzanti); realizzando misure di carattere sociale (alloggi, educazione, etc). Le politiche ambientali sono collocate in fondo. E poi, qualora si trovasse anche un funzionario sensibile al tema (pensiamo al nostro anonimo mister “Chen”), la struttura burocratica frammentata della periferia cinese renderebbe vano ogni sforzo individuale. Si procede per inerzia sulla strada già nota.
Ci sarebbero poi gli incentivi finanziari ma – osserva Ran Ran – il governo centrale ha poco budget per l’ambiente e il non rispettare le norme ambientali è più comodo per i funzionari che vogliono riempire le casse dei propri governi locali, cronicamente in rosso.
Ecco infine gli incentivi morali, tipici della tradizione comunista e delle mobilitazioni di massa del passato maoista. Di fatto, secondo la professoressa, a oggi i funzionari locali non sentono apprezzamento se proteggono l’ambiente e, al contrario, non avvertono senso di colpa – o quella sua versione tutta cinese che è la perdita di faccia – se contribuiscono a devastarlo.
Dato che il governo, con le sole misure amministrative, non riesce a far cambiare rotta alla Cina che inquina, ci vuole secondo Ran Ran più partecipazione delle Ong, cioè della società civile. Di sicuro, se non aumenta la partecipazione – spiega Ran Ran – non si diffonde neanche una coscienza ambientale. Tipico è il caso di quello che è stato già definito “nazionalismo ambientale”: gente che protesta contro le industrie giapponesi, taiwanesi, coreane che inquinano ma non contro quelle cinesi. È poi già in corso un outsourcing dell’inquinamento che va in parallelo con l’esternalizzazione di industrie cinesi nel Sudest Asiatico, in Sri Lanka, Africa, e così via. Sta succedendo oggi ciò che è avvenuto trent’anni fa con la Cina ed è già parte del conflitto tra Pechino e le popolazioni di quei luoghi.
Ma se si parla di partecipazione il problema diventa politico: il Partito può cedere parte del controllo a ciò che Partito non è? La domanda resta aperta.
L’ambientalista Ma Jun ci ha spiegato come l’Institute of Public and Environmental Affairs (Ipe), una Ong di cui è fondatore, cerchi di ampliare la partecipazione sulle questioni ambientali. L’istituto ha creato un database che monitora l’inquinamento (suolo e aria) e che ha già registrato 160mila violazioni negli ultimi 10 anni. A inserire i dati è una rete di 21 Ong denominata “Green choice initiative”: lo fa attraverso un software che permette di denunciare le violazioni con un solo clic.
Sono metodici. Nel 2010 hanno cominciato a confrontarsi con le industrie elettroniche sull’inquinamento tecnologico e, da allora, molte di queste hanno cominciato a cambiare le proprie policy soprattutto sui metalli pesanti, che prima scaricavano nei fiumi.
Poi si è passati all’industria della moda, monitorando 50 brands. Il loro lato oscuro è la concentrazione dell’inquinamento presso i subfornitori e quindi è stato introdotto il concetto di “responsabilità”, che impone loro di sottoporsi alle inchieste delle Ong e del governo e di tenere sotto controllo tutta la catena di produzione. Sono a oggi 1700 le manifatture monitorate.
Ipe pubblica i record climatici delle maggiori industrie cinesi quotate alle borse domestiche e a Wall Street. C’è però un problema: i dati presenti nelle sue app, quelli esaminati dalla rete di Ong che poi li inserisce, vengono dai governi locali e sono in seguito controllati dal governo centrale. Quanto sono attendibili?
Secondo Ma, la novità va ricercata nel fatto che ora sono comunque pubblici e facilmente accessibili. Lui spera che questo processo di disvelamento dia gradualmente più confidenza alla gente e stimoli il governo in modo che si crei un’azione coordinata. Inoltre, ritiene che la trasparenza possa danneggiare il brand value delle aziende inquinanti, che avranno quindi interesse a rispettare le leggi fin dall’inizio.
Si tratta insomma di un processo di controllo progressivo del potere. All’inizio, 8 anni fa, Ipe si serviva solo dei dati open source del governo, limitati e non si sa quanto esatti per definizione. Ma nel processo di disvelamento progressivo – aggiunge Ma Jun – la Ong ha indotto molte imprese e governi a fornire sempre più dati.
Sia la professoressa Ran Ran, sia Ma Jun sono concordi nel ritenere che il passo successivo è la riforma del sistema giudiziario. Una volta che si capisce chi ha violato la legge, si può fare causa alle aziende? A oggi, le Ong non sono qualificate. I 134 tribunali ambientali già esistenti subiscono il condizionamento dei potentati locali. Sarà forse il Tribunale Ambientale e delle Risorse, un organismo di coordinamento e supervisione creato la scorsa primavera, che potrà rendere più coerente il sistema.
Il plenum del comitato centrale di ottobre sarà incentrato sullo Stato di diritto. Vedremo quanto spazio avrà l’ambiente.