InnovAsia – Ripartire dalla scuola

In by Simone

iPad di tutto il mondo, scaricateci (gratis o 3,59 per Kindle). Il numero speciale del manifesto interamente dedicato all’Asia a cura China Files ci introduce al tema dell’innovazione nel continente di Buddha e di Confucio. In Cina per prima cosa bisogna ripensare il percoso scolastico, dalle elementari all’università.
Capita spesso di passare di fronte a una scuola cinese e di sentire un coro di giovani voci ripetere a pappagallo le frasi pronunciate da una voce adulta. Inizia così la lunga carriera scolastica degli studenti cinesi: sei anni di elementari, tre di medie e tre di liceo. Poi, a seconda del punteggio raggiunto nel fatidico esame finale – il gaokao che tutti temono – l’università.

Un’istruzione che prevede un percorso durissimo per gli studenti, ma che nessuno sembra apprezzare. Troppo apprendimento mnemonico, appiattimento delle individualità su un sistema educativo che prevede un apprendimento unidirezionale (dall’alto al basso) e metro di giudizio basato unicamente sugli esami.

Benjamin Koo, professore associato di origine taiwanese che oggi insegna ingegneria industriale in una delle più importanti università cinesi, la Tsinghua, ha raccontato in un’intervista che una volta gli è capitato di dover far visita ad una delle migliori scuole superiori del paese. Quando si è trovato di fronte agli studenti ha chiesto loro di ripensare alla loro vita. Da quando ancora bambini avevano cominciato a frequentare le scuole, in quanti potevano affermare di aver goduto di cinque minuti di tempo libero ? Su 400 studenti – racconta il professore – nessuno ha alzato la mano.

Chi pensa al futuro della Cina si preoccupa per i laureati che, così formati, non hanno coscienza critica e creatività sufficienti a competere sul mercato globale. E poi c’è chi teme che l’indottrinamento politico porti a un nazionalismo eccessivo delle nuove generazioni e i genitori che dopo aver sacrificato le proprie vite per permettere ai figli di studiare sono terrorizzati dal fatto che esami così crudeli determinino senza appello il futuro dei propri pupilli. Ma soprattutto ci sono loro, gli studenti che subiscono un’istruzione così concepita, che patiscono l’aver sacrificato infanzia e adolescenza a prepararsi agli esami e – oggi – di non trovar lavoro usciti dall’università.

Questo, infatti, è stato un anno tragico per i neolaureati. Un articolo del Financial Times ha denunciato che si troveranno di fronte il peggior mercato del lavoro che la storia della Repubblica popolare cinese ricordi. Ce ne sono stati sette milioni, 190mila in più rispetto all’anno scorso. Ma nel frattempo i posti di lavoro sarebbero calati del 15 per cento. E c’è chi ha fatto analisi ulteriori.

L’agenzia di consulenza McKinsey ha pubblicato uno studio che dimostra che il sistema educativo cinese “ insegna agli studenti a non prendere iniziative e a non mettere mai in discussione l’autorità dei superiori” e ha stimato che nel 2020 i disoccupati cinesi saranno 23 milioni. Non solo perché il mercato del lavoro è saturo, ma soprattutto perché si alzerà il livello di competenze richieste. Un costo per lo stato che ha valutato a circa 250 miliardi di dollari.

Xiong Bingqi, professore che si è guadagnato una discreta attenzione pubblicando, già nel 2004, un libro che esaminava le problematiche che dovevano affrontare le università cinesi (Universities Have Problems) è convinto che il nocciolo del problema sia l’eccessiva influenza del Partito all’interno delle università. Ogni università infatti fa capo a un segretario di Partito e ha una media di 150 quadri che lavorano all’interno della sua amministrazione, senza contare quelli fanno capo alle singole facoltà.

Intendiamoci, non stiamo parlando di un dissidente emigrato negli Stai Uniti. Il professor Xiong è stato a lungo vicedirettore del dipartimento di propaganda della Jiaotong University a Shanghai, ha scritto quattro libri sul tema dell’educazione e oggi è vicepresidente del centro di ricerca 21st Century Education Development.

Inoltre le università cinesi sono ormai al centro di una serie di scandali. L’ultimo in ordine di tempo è quello documentato dall’Economist: un mercato che solo nel 2009 valeva 150 milioni di dollari e che oggi si pensa valga molto di più. Nel mondo della ricerca internazionale, infatti, premi e promozioni sono assegnati in base al numero degli articoli pubblicati. Ed ecco quindi che in Cina si apre il mercato delle ricerche copiate o inventate e delle testate create appunto al solo scopo di pubblicare articoli scientifici altrimenti impubblicabili. Sicuramente questo non è un problema che riguarda solo la Cina, ma nell’ex impero di mezzo assume – come tutto – dimensioni gigantesche. La rivista scientifica Nature ha calcolato che il numero di pubblicazioni scientifiche dei ricercatori cinesi nel 2012 è aumentato del 35 per cento rispetto all’anno precedente.

E non sono solo i poveri ricercatori a usare sotterfugi per fare carriera. Un ex ministro delle ferrovie processato a settembre per corruzione, ha ammesso di aver speso quasi 8 milioni per entrare nella rinomata Accademia delle Scienze, il think thank più autorevole della Cina. I giornali locali non si sono stupiti di molto. Hanno subito concluso che quella cifra è stata spesa per pagare voti e ghostwriter che scrivessero libri a suo nome.

Anche il mondo accademico cinese è indignato. “La corruzione accademica sta gradualmente erodendo la meravigliosa e ormai accreditata cultura che i nostri antenati ci hanno lasciato cinquemila anni fa” ha denunciato su una rivista scientifica britannica Lin Songqing, profssore dell’Accademia delle Scienze.

È ancora Xiong Bingqi a spiegare chiaramente cosa sia accaduto nel frattempo. Negli anni Ottanta, quando la Repubblica popolare ha ricominciato a investire nella scienza, valutare i candidati sulla base delle pubblicazioni sembrava un buon modo per liberarsi dalle raccomandazioni politiche.

Ma oggi le promozioni sono date in base ai punti raggiunti su statistiche predeterminate e presentano le stesse problematiche in tutto il settore pubblico. È quello che il professor Xiong chiama “pil”ismo dell’educazione, ovvero il ridurre l’intero sistema scolastico alla quantità di soldi che fa girare. Proprio come avviene in ogni campo delle amministrazioni pubbliche.

Intendiamoci, prima dell’avvento del Partito comunista non solo l’educazione ma anche l’alfabetizzazione erano un privilegio delle élite. In sessant’anni il tasso di analfabetismo è calato dall’80 al 10 per cento e oggi anche il più povero ragazzo dell’entroterra è incoraggiato a studiare – magari ancora a lume di candela – e a sognare di entrare un giorno nelle università più prestigiose del paese.

Ma diciamo che le sue chance sono quantomeno basse, anche perché il massimo del punteggio raggiunto nell’esame finale di una scuola di provincia non vale quanto quello ottenuto in una scuola della capitale o di qualche altra città di prima o seconda fascia.

Inoltre un sistema universitario concepito sessant’anni fa per formare quei famosi “tecnocrati” che hanno guidato l’economia del paese fino ad oggi di certo non può sostenere il passo della modernità che oggi fa della conoscenza della tecnologia, della globalizzazione e di internet uno dei suoi più grossi cavalli di battaglia.

È per questo che oggi i figli delle élite cinesi studiano all’estero. Non dovranno memorizzare testi in classi da cinquanta studenti con l’unico obiettivo di superare l’esame finale. E, una volta tornati in patria, non avranno problemi a trovare un lavoro di alto profilo.

Ma forse le cose stanno cambiando. Il ministro dell’istruzione ha recentemente resa pubblica una proposta per “alleggerire” la scuola. Si tratta solo di una proposta certo, e per ora è limitata ai primi tre anni delle scuole elementari. Ma sembra quanto meno prendere in considerazione le critiche più serrate.

Se la proposta passerà – cosa probabile, visto che è già stata ripresa da tutti i media di stato – gli studenti saranno incoraggiati a una maggiore interazione con gli insegnati, non dovranno più portare a casa i compiti e alle attività curriculari verranno aggiunti momenti extrascolastici come visite ai musei e attività pratiche.

Abbiamo soppesato vantaggi e svantaggi del nostro sistema di istruzione e molte delle capacità dei nostri studenti sono ancora deboli” spiega ancora Xiong Bingqi in un’intervista al Los Angeles Times. “Fanno bene ciò che i professori gli chiedono, hanno un vocabolario ampio e sono bravi in matematica. Ma il livello della loro creatività e della loro immaginazione è basso”. Ed è chiaro che, per un paese che vuole compiere il salto dal made in China al designed in China, creatività e immaginazione oggi sono essenziali.