Gli influencer occidentale si muovono in un’area grigia in quanto a regolamentazioni e non sono soggette agli stessi standard di trasparenza e indipendenza richiesta a giornalisti e ricercatori.
Una passeggiata spensierata attraverso i campi di cotone in Xinjiang. Una giornata senza mascherina per le strade di Wuhan. Pechino in festa per l’inizio dei Giochi invernali. Non sono estratti da filmati del dipartimento di propaganda del Partito comunista cinese, ma video da milioni di visualizzazioni ad opera di influencer stranieri residenti in Cina, che su Youtube, Twitch e le loro controparti cinesi Bilibili e Youku raccontano a un pubblico internazionale la loro esperienza nella Repubblica popolare cinese, contestando le critiche di media e governi occidentali sul modello di governance di Pechino e offrendo resoconti della vita nella Rpc spesso romanticizzati e privi di sfumature negative.
Negli ultimi anni, personaggi come l’americano Cyrus Janssen (191mila iscritti su Youtube), il britannico Jason Lightfoot (202mila followers) o il duo padre-figlio Lee e Oli Barrett (336mila followers) si sono impegnati a costruire un’immagine positiva della Rpc, mostrando nei loro video diari di viaggio in zone oggetto di controversia per la Cina come Xinjiang, Tibet e Hong Kong e proponendo una versione “alternativa” alla copertura mediatica occidentale critica della Cina con titoli altisonanti quali “Perché i media occidentali mentono sulla Cina”, “Il fallimento americano del boicottaggio olimpico” o “La verità sul Xinjiang”.
Un’insolita armata di proseliti e un asso nella manica per il governo cinese, che ha accolto di buon grado i contenuti di queste personalità del web (nonostante vengano diffuse su app occidentali ufficialmente non accessibili in Cina), sfruttandoli per promuovere a livello domestico e internazionale narrative approvate su temi sensibili. Niente di meglio che una schiera di influencer occidentali per difendere la gestione del Covid o smentire le accuse di repressione ai danni dell’etnia uigura e di altre minoranze di fede musulmana in Xinjiang. L’opinione pubblica oggi si modella online.
A differenza dei media statali poi, le celebrità del web occidentale si muovono in un’area grigia in quanto a regolamentazioni e non sono soggette agli stessi standard di trasparenza e indipendenza richiesta a giornalisti e ricercatori. Con questo presupposto in mente un recente rapporto dell’Australian Strategic Policy Institute (Aspi) ha analizzato la sinergia tra youtuber stranieri in Cina e canali di propaganda governativi nel promuovere contenuti sulla regione autonoma del Xinjiang in linea con la narrativa del Partito comunista, individuando un intricato ecosistema dove videomakers, media nazionali ed esponenti del ministero degli Esteri si supportano vicendevolmente. Secondo quanto emerso dall’inchiesta, tra gennaio 2020 e agosto 2021 156 media statali cinesi avrebbero ricondiviso e amplificato contenuti positivi riguardanti il Xinjiang dagli account di 13 influencer stranieri operativi nella Rpc.
Di questi, la visita dell’influencer israeliano Raz Ga-Or a una piantagione di cotone rimane tra gli episodi più controversi. Nella primavera del 2021, in concomitanza con lo scandalo che ha visto H&M e altri brand occidentali schierarsi contro l’utilizzo del cotone proveniente dalla regione nord occidentale dove secondo diverse Ong è in corso una massiccia violazione dei diritti umani ai danni della popolazione uigura, lo youtuber ha realizzato un video reportage sulle condizioni di lavoro nell’area. ù
“È tutto normale qui”, dice Ga-Or nel video mentre, accompagnato da due contadini di etnia uigura, decanta l’ottimo salario e le condizioni dei coltivatori. “Stanno forzando i droni a lavorare”, continua scherzando mentre mostra le diverse tecnologie impiegate nel raccolto. Quello che il video mancava di menzionare, tuttavia, è che il tour era stato organizzato dalla Cyberspace Administration of China, l’ente regolatore che tra i suoi incarichi conta la promozione di “energia positiva” e contenuti armonizzati online. Il filmato è stato ricondiviso anche sul canale Facebook dell’ambasciata cinese in Italia con sottotitoli in italiano. Anche senza l’etichetta della propaganda, soggettività e conflitto di interessi sembrano essere all’ordine del giorno.
Dopo il Xinjiang, debunking sull’origine del Covid e rapporto con gli Stati Uniti sono tra i temi preferiti dall’armata degli influencer influenzati. Di recente anche la difesa delle Olimpiadi invernali di Pechino contro il boicottaggio diplomatico da parte di alcuni governi ha riempito gli schermi di influencer e content creators. E alcuni di questi, secondo quanto svelato da un documento registrato presso il Dipartimento di Giustizia americano, compaiono direttamente sul libro paga di Pechino. Per sponsorizzare le Olimpiadi “semplici, sicure e splendide” volute da Xi Jinping, il governo cinese avrebbe infatti firmato un contratto da 300mila dollari con la compagnia di comunicazione statunitense Vippi Media Inc per assoldare tiktokers occidentali e diffondere un’immagine armoniosa dei Giochi.
Influenzati o meno, la curiosa alleanza tra influencer stranieri e governo cinese sta aiutando la macchina della propaganda del Partito nello sforzo di rimodellare l’immagine della Cina sul piano internazionale, con un atteggiamento che diluisce tematiche importanti riducendole a scambi di invettive social e che rischia di alimentare la disinformazione con testimonianze polarizzate e incomplete. Un gridare al vento tra le parti dove diritti umani e fact checking si perdono tra i frammenti di un video Youtube.
Di Lucrezia Goldin
[Pubblicato su Gariwo]Giornalista praticante, laureata in Chinese Studies alla Leiden University. Scrive per il FattoQuotidiano.it, Fanpage e Il Manifesto. Si occupa di nazionalismo popolare e cyber governance si interessa anche di cinema e identità culturale. Nel 2017 è stata assistente alla ricerca per il progetto “Chinamen: un secolo di cinesi a Milano”. Dopo aver trascorso gli ultimi tre anni tra Repubblica Popolare Cinese e Paesi Bassi, ora scrive di Cina e cura per China Files la rubrica “Weibo Leaks: storie dal web cinese”.