L’Unione europea rivuole la sua autonomia. È del 5 maggio la nuova strategia industriale delineata dalla Commissione che definisce 137 prodotti «molto sensibili all’offerta esterna al mercato unico».
Tra questi sono 34 in particolare a preoccupare perché scarsi su suolo europeo, con la conseguente necessità di importarli da fornitori esteri. Tra i settori centrali emergono le tecnologie avanzate per cloud (archiviazioni dei dati nella rete) ed edge computing (elaboratori di dati che non necessitano di server fisicamente distanti dalla fonte dei dati), semiconduttori, ingredienti farmaceutici attivi (il principio attivo dei farmaci, un mercato che le proiezioni dicono raggiungerà i 1,5 trilioni entro il 2023). La lista include anche idrogeno, batterie, materie prime.
NELLA STESSA GIORNATA è uscito un altro comunicato che riguarda gli investimenti esteri su suolo europeo, che culmina con la decisione di Bruxelles di frenare sulla ratifica dell’accordo con la Cina. La Commissione definisce infatti come «distorsivi» i finanziamenti che arrivano oltreconfine nei confronti di aziende straniere o acquisite con capitali esteri e chiede ulteriori meccanismi di controllo. «L’apertura del mercato unico è la nostra più grande risorsa. Ma l’apertura richiede correttezza», ha commentato la vicepresidente esecutiva Margrethe Vestager.
La Cina in questo contesto è l’elefante nella stanza. Almeno la metà dei 137 prodotti chiave per l’autosufficienza industriale europea provengono dalla Repubblica popolare, mentre in tema di investimenti Pechino ha aumentato di 50 volte la propria presenza nella Ue in soli dieci anni.
I finanziamenti di Pechino nei confronti dei propri «campioni» oltreconfine sono da tempo nel mirino delle politiche europee, che vedono nelle iniziative cinesi uno strumento di facilitazione all’ingresso sui mercati europei, cosa che non accade per le aziende europee interessate al mercato cinese.
Un ruolo preponderante sul mercato europeo di domani sarà giocato dalle tecnologie avanzate per l’industria 4.0 e per la transizione energetica. È proprio la Cina a emergere nella corsa globale alle tecnologie energetiche «pulite», con investimenti tali da abbassare i prezzi dell’intero mercato globale: tra il 2010 e il 2018 l’impatto sui costi è stato di -77% per i pannelli solari, -85% per le pale eoliche e fino al -35% per le batterie di stoccaggio dell’energia. Il monopolio della Repubblica popolare sulle terre rare è inoltre un segnale che denota la forte presenza di Pechino nella catena globale del valore delle tecnologie avanzate per la manifattura, i servizi e il settore energetico.
LE PARTNERSHIP e le acquisizioni siglate dal gigante Shenghe Resources con compagnie australiane, canadesi e groenlandesi sono una delle tante strategie che Pechino utilizza per diversificare a sua volta domanda e offerta lungo la filiera. E cerca di attrezzarsi nella corsa ai semiconduttori attirando capitale umano dalla concorrenza, in particolare Taiwan.
Per l’Unione europea, al contrario, la maggior parte delle tecnologie chiave sono un rischio sistemico: se da un lato il know-how è spesso europeo, il prodotto finito e le sue componenti vengono commissionati all’estero per rendere il prezzo competitivo. La Cina rappresenta un collo di bottiglia importante: se l’obiettivo dell’Unione è, come dice il New Green Deal, rendere l’Europa «il primo continente a impatto climatico zero», il controllo della filiera sarà imprescindibile dalla transizione energetica.
[Pubblicato su il manifesto]Formazione in Lingua e letteratura cinese e specializzazione in scienze internazionali, scrive di temi ambientali per China Files con la rubrica “Sustainalytics”. Collabora con diverse testate ed emittenti radio, occupandosi soprattutto di energia e sostenibilità ambientale.