Oltre a essere conosciuta per la sua estesissima dimensione insulare e una cultura antica che ha prodotto splendidi monumenti che attirano ogni anno milioni di turisti, l’arcipelago indonesiano è purtroppo noto, specie dai suoi vicini asiatici, anche per via di un fenomeno chiamato haze, nebbia o foschia. Una nebbia prodotta però non dal calore e dall’umidità ma dai fumi provocati da migliaia di incendi dei residui vegetali delle piantagioni.
Dal 1991, haze è un fenomeno particolarmente grave nel Sudest asiatico proprio per via degli incendi appiccati a Sumatra e Kalimantan, le due grandi isole indonesiane dove la foresta primaria ha lasciato spazio alle piantagioni soprattutto di palma da olio, di cui l’Indonesia è la regina indiscussa con 33.4 milioni di tonnellate prodotte (seguono Malaysia con 19,9 e – a gran distanza – la Thailandia con 1,8).
La vendita sul mercato internazionale – nel 2019 – ha totalizzato oltre 14 miliardi di dollari per quello che è il suo primo prodotto dell’export. Haze però ha sempre creato problemi a Giacarta: i Paesi del Sudest riuniti nell’Asean hanno concordato un piano d’azione contro l’haze già nel 1997 e nel 2002 hanno firmato un accordo sull’inquinamento da foschia transfrontaliera. Ma poiché l’haze non ha bisogno di visto, i problemi rimangono. Come gli incendi. Per l’Indonesia la palma da olio è del resto un prodotto irrinunciabile proprio perché è la regina dell’export.
Benché il Paese si stia avviando a diventare una delle economie più importanti del pianeta, anche solo per il fatto di essere la quarta nazione più popolosa al mondo con un mercato interno di 270 milioni di compratori, le esportazioni indonesiane sono diminuite a un tasso annuo superiore al 3% negli ultimi cinque anni.
Nel 2019 son scese a 140 miliardi mentre si importa meno, con un import annuale sceso a 132 miliardi il che le ha consentito, a fine anno, di godere comunque di un saldo commerciale positivo di oltre 8 miliardi (nel 2017 era di 35) a fronte di un Pil di 932 miliardi. Il dato non deve trarre in inganno: una diminuzione dell’import export può infatti significare che aumenta la platea interna di consumatori, un elemento trainante nel caso di Paesi molto popolati in una classifica che vede l’Indonesia seconda solo ai tre grandi colossi mondiali: Cina, India e – a diverse lunghezze – Stati Uniti.
Testa testa con l’olio di palma, un altro principe dell’export indonesiano è il carbone di legna (da residuati della palma) che nel 2017 li vedeva alla pari con oltre 18 miliardi ciascuno di incasso. Nel 2019 l’olio è tornato in testa. Seguono gas, gomma e petrolio. Come si vede dunque, i settori più rilevanti sono i prodotti da piantagione e il fossile, quest’ultimo però insufficiente al mercato interno. Giacarta importa infatti petrolio raffinato e greggio seguiti da prodotti della telefonia, parti di veicoli e gas. Le importazioni principali sono soprattutto da Cina, Singapore e Giappone, seguite da Malaysia e Thailandia.
Le principali destinazioni di esportazione del Paese vanno ancora verso la Cina, seguita da Stati Uniti, Giappone, India e Singapore. Tutti Paesi con numeri importanti.
Quel che val la pena di notare, nel bilancio complessivo di import ed export, è la quasi totale assenza dell’Europa. Se gli Usa contano per l’11% dell’export e per quasi il 5% dell’import indonesiano, solo la Germania oltrepassa il 2% nei due sensi. L’Italia è all’1%. Gli altri partner europei non fanno molto meglio se non l’Olanda (importando l’1,8%), la grande colonizzatrice che rimase nell’arcipelago tre secoli.
Di Emanuele Giordana
[Pubblicato su il manifesto]