Viaggiando in Indonesia, che tu sia uno del posto o uno straniero, senti ripetere una domanda prima di qualsiasi altra: «Dari mana?», «Di dove sei?». Forse è naturale in questa nazione di commercianti, un modo per immaginare quel che lo straniero ha da offrire, cosa si potrebbe comprare da lui, come è probabile che si comporti. Ma offre anche uno spiraglio interessante su ciò che pensano gli indonesiani delle altre nazioni. Compresi i loro ex colonizzatori.
Un tempo la domanda dari mana? mi creava difficoltà. Mia madre è una scozzese cresciuta in Inghilterra, ma io non ho vissuto nel Regno Unito prima di compiere quattordici anni, e vi ho risieduto in senso proprio solo per cinque dei successivi trentacinque anni. Mio padre è nipote di immigrati italiani a New York. I miei genitori si sono conosciuti in coda al controllo passaporti quando mio padre girava il mondo e mia madre l’Europa in autostop. Sono nata in una città del Midwest americano di cui non imparo mai a scrivere il nome e sono cresciuta in Germania, Francia e Spagna. In realtà ho vissuto in Indonesia per più tempo che in qualsiasi altra nazione. Ma decine di volte al giorno, tutto questo viene condensato in «Dari Inggris», «Sono inglese».
La prima volta che ho vissuto in Indonesia, quando confessavo di essere inggris, la risposta inevitabile era: «Ah! Inggris! Lady Di!». In questa epoca di accesso pressoché universale al calcio televisivo, è diventata: «Ah! Inggris! Manchester United!» Ma poi, con notevole frequenza, alla reazione iniziale segue qualcos’altro: «Magari fossimo stati colonizzati dagli inglesi invece che dagli olandesi».
Quando chiedevo perché, fornivano invariabilmente una o più delle seguenti ragioni. Primo: gli olandesi prendevano solo, non davano niente in cambio, mentre gli inglesi costruivano grandi istituzioni statali. (Ma che dire di tutti quei grandi lavori di ingegneria? chiedevo. I sistemi di irrigazione, i porti? Erano solo per derubarci meglio, rispondevano gli indonesiani.) Secondo: gli olandesi tenevano di proposito la popolazione locale nell’ignoranza, mentre gli inglesi la istruivano. Terzo: gli olandesi avevano un sistema giudiziario capriccioso amministrato da incaricati dei politici che andava sempre a scapito della persona umile, mentre i britannici avevano una magistratura indipendente e tutti erano uguali davanti alla legge.
Queste opinioni non venivano da storici o studiosi ma dalla gente che incontravo sulle barche e ai chioschi del caffè, camionisti, contadini e levatrici. Ho sempre trovato interessante il fatto che, anche se incolpano gli olandesi di un sacco di cose, negli ultimi sette decenni gli indonesiani hanno fatto ben poco per cambiare. Sospetto che sia perché gli olandesi non hanno fatto altro che sfruttare modelli di comportamento che già esistevano in queste isole al loro arrivo.
Gli europei hanno cambiato le regole del gioco del commercio, è vero, e hanno reso più efficienti le piantagioni e le industrie estrattrici. Ma i re e sultani delle molte isole avevano finanziato le loro infinite guerre spremendo la clprivilegiati. La nuova etica non impedì tuttavia al governo della capitale coloniale, Batavia (oggi Jakarta), di fare la guerra ad altri indigeni.
Negli anni, a Java e in alcune zone di piantagioni di altre isole, c’erano state ribellioni contro gli olandesi, e innumerevoli atti di disobbedienza civile creavano falle nell’odiato sistema del lavoro forzato. I coloni reagivano sempre con brutalità. Negli ultimi decenni del XIX secolo, diventarono anche meno tolleranti riguardo ai feudi pseudo-autonomi che sopravvivevano in alcune isole. Batavia lanciò delle campagne per imporre il suo volere su tutta la catena di isole dell’arcipelago, ma i governanti locali si rivoltarono.
A Bali, a pochi colpi di remi dall’olandesissima Java, i governanti locali resistettero al giogo della regina Guglielmina fino al 1908. Aceh, all’estremità occidentale dell’arcipelago, tenne lontani gli olandesi fino al 1903. All’altro estremo, nelle giungle e acquitrini della Papua occidentale olandese, la presenza coloniale era ancora più teorica. Papua era così ai margini che non faceva nemmeno parte della nazione che fu consegnata al governo indonesiano al momento dell’indipendenza.
E nella metà orientale dell’isola di Timor, gli olandesi non misero mai piede. I portoghesi si erano insediati a Timor Est dopo essere stati cacciati dalla popolazione di Ternate nel XVI secolo. Restò un’enclave portoghese fino al 1975, quando Lisbona la abbandonò in seguito alla rivoluzione socialista in patria. L’Indonesia si affrettò a mandare l’esercito e a “integrare” Timor Est come ventisettesima provincia della nazione.
Ironia della sorte, fu la benintenzionata politica etica a spargere i semi di un autentico movimento anti-colonialista. Per la prima volta, giovani “indigeni” potevano ricevere un’istruzione, e in una lingua europea che dava loro accesso a libri e giornali pieni delle nuove idee sulla sovranità e la giustizia sociale. Per la prima volta, giovani di tutto l’arcipelago si incontravano nelle grandi città di Java, trovando una causa comune contro un nemico comune. Fu nelle menti di quei giovani che si formò il concetto di Indonesia.
E questo assunse concretezza nel 1928, quando un congresso di gruppi giovanili dei vari angoli dell’arcipelago dichiarò, nel nome dei «figli e figlie dell’Indonesia», che avrebbe combattuto per «una madrepatria: Indonesia. Una nazione: Indonesia. Una lingua: indonesiano».
Questo sarebbe diventato il grido di guerra dei nazionalisti nella battaglia per rovesciare gli olandesi. Quelli che gridavano troppo forte furono esiliati dagli olandesi in angoli sperduti del territorio, dove non erano in grado di nuocere.
*Elisabeth Pisani è un’esploratrice, un’analista, un’epidemiologa e una scrittrice. Ma soprattutto, come dice lei stessa, è un’incurabile curiosa. La sua ricerca si concentra sull’interazione tra scienza, politica e cultura. Parla molte lingue, tra cui il mandarino e l’indonesiano. Ha vissuto e lavorato in Indonesia per quindici anni, prima come giornalista per Reuters, successivamente come epidemiologa per il ministero della Salute indonesiano occupandosi di Hiv tra lavoratori del sesso, tossicodipendenti, comunità gay delle maggiori città del Paese. Attualmente è direttrice di Ternyata Ltd, studio pubblico di consulenza medica nel Regno Unito.
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.