Inaugurando alla grande il mese di agosto, il ministero delle telecomunicazioni indiano ha ordinato di punto in bianco il blocco di oltre 800 siti "porno", dove "porno" è nome collettivo che comprende le pagine internet che non incontrano il gusto e la morale integerrima di un avvocato di 43 anni. E non è una metafora, è andata proprio così.Kamlesh Vaswani è un avvocato del Madhya Pradesh, ha 43 anni, e in seguito all’ennesimo episodio di stupro e omicidio in India – il Delhi Gangrape del dicembre 2012 – aveva deciso che a difesa del pubblico pudore, a tutela del futuro delle future generazioni che calpesteranno questa grande terra chiamata Bharat, a protezione delle mogli, delle sorelle e delle figlie del popolo dell’Hindustan, qualcosa andava fatto. L’imbarbarimento dei morigerati costumi indiani, secondo Vaswani, è sfociato nella serialità della violenza sessuale – ora che lo dice anche la tv! – per colpa dell’invasione del porno digitale, l’arma di distruzione di massa entrata di contrabbando nelle case dell’India per bene – tutta, per bene – come un Cavallo di Troia dell’Occidente. Una Guerra dell’Oppio combattuta a suon di pippe per blandire l’orgoglio indiano e piegarlo all’avanzata dell’Occidente.
A farne le spese, donne di ogni età ed estrazione sociale in tutto il paese, vittime di una violenza eterodiretta, avulsa dai sani princìpi indiani che hanno domato la bestia maschile mantenendo quanto più possibile una sana e sicura segregazione dei sessi, un giusto decoro pubblico, una sacrosanta e costante staffetta maschile per contr…ehm, proteggere le proprie madri, sorelle e figlie fuori dal perimetro del focolare domestico (dove si consumano più della metà delle violenze sessuali nel paese).
Gli stupri in India, secondo Vaswani, sono la conseguenza diretta dell’aumento della disponibilità di materiale pornografico nel paese, una piaga – quoto letteralmente dal New York Times, giuro – "peggiore di Hitler, del cancro, dell’Aids e di qualsiasi altra epidemia. […] È più catastrofica di un olocausto nucleare e deve essere fermata".
L’estratto è preso dal testo della petizione con la quale l’avvocato Vaswani, nel 2013, ha chiesto alla Corte suprema indiana di bloccare la diffusione di porno in rete. In allegato, una lista di 857 pagine internet stilata dallo stesso Vaswani con l’aiuto di un "amico ingegnere informatico", dopo aver analizzato il traffico internet indiano verso i siti porno di tutto il globo. Gli 857 indirizzi web come il Best of dell’eiaculazine subcontinentale.
La petizione venne accolta dalla Corte, dando il via all’iter di valutazione e richiesta di chiarimenti al governo in carica (allora amministrazione Manmohan Singh, Indian National Congress), in ottemperanza all‘Information Technology Act del 2000, sezione 67, che criminalizza "la distribuzione e la diffusione di materiale offensivo per via elettronica", ma non la visione.
La notizia dell’ammissione della petizione – e non ancora dell’entrata in vigore del blocco – aveva già seminato il panico nell’opinione pubblica, catalizzato nella satira preventiva del collettivo All India Bakchod, che aveva immaginato un paese in lutto per la dipartita di Youporn.
Coi suoi tempi, la Corte arriva a una prima presa di posizione un mese e mezzo fa (nota, non una sentenza, ma un parere), col giudice H.L. Dattu che mette in discussione la fattibilità di un ordine di restrizione su contenuti, buoni o cattivi che siano, consultati privatamente dai cittadini indiani senza dare fastidio a nessuno. Sarebbe, dice Dattu, una violazione dell’articolo 21 della Costituzione che protegge la libertà personale dei cittadini indiani. Insomma, parliamone, dice la Corte.
Lo scorso weekend, sbattendosene allegramente dell’articolo 21 della Costituzione, il ministero delle telecomunicazioni indiano – guidato da Ravi Shankar Prasad, esponente del Bharatiya Janata Party – dirama una direttiva ai principali internet provider indiani (non tutti, ora lo vediamo) ordinando di bloccare una lista di siti internet contenenti materiale pornografico, in ottemperanza sempre all’Information Technology Act del 2000, ma stavolta sezione 79 (3)(b), che permette alle autorità di bloccare siti contenenti materiale che vìola "la moralità e il decoro come da articolo 19(2) della Costituzione indiana" (nota: sì, la Costituzione indiana ha una parte in cui si raccomanda la protezione del decoro e della moralità, senza indicare cosa sia decoroso o morale in India).
Il dipartimento delle telecomunicazioni invia ai service provider una lista di…857 siti internet. Presumibilmente quelli di Vaswani che, coi tempi lunghi della burocrazia indiana, aveva provato una scorciatoia, presentandosi alla sede del Bjp a New Delhi per sollecitare di persona qualche alta carica del partito sulla necessità di bloccare i siti del dimonio (la lista, secondo il New York Times, sarebbe passata da Vaswani a Pinky Anand, avvocatessa di Narendra Modi prima, avvocatessa di Stato oggi).
Nella lista di porno-proscrizione, si scoprirà poi, ci sono anche pagine da humour nerd come Collegehumour e 9gag (e qui si vede la mano dell’amico ingegnere informatico), che di materiale pornografico non ne hanno (pornografico, non erotico). Il che ci dà bene la misura del coefficiente di "casualità al potere" latente dell’amministrazione indiana.
Il blocco entra in vigore nella notte di venerdì e coinvolge la maggioranza dei service provider del paese (tra cui Airtel e Vodafone, mi dicono); non vale per i service provider minori, specie quelli "via cavo", slegati dall’utenza telefonica, come quello che serve casa mia e quella di milioni di utenti indiani. Oasi di resistenza della libera pippa in libero stato.
Nel giro di tre giorni, con l’internet indiana in fiamme contro la "talibanizzazione" della rete operata senza la minima discussione pubblica dal governo in carica, il ministro Ravi Shankar Prasad corre ai ripari, difendendo prima la bontà dell’iniziativa di un governo, il suo, che avrebbe "massimo rispetto della libertà personale e d’opinione dei cittadini indiani", poi – oggi – aggiustando la mira della censura, chiarendo che il blocco – per ora – interesserà solo i siti internet che ospitano "pedopornografia" (e chissà se ce n’è anche solo uno nella lista degli 857 che corrisponde a questa descrizione).
Nel frattempo la stampa indiana è andata in trance agonistica, riportando qualsiasi sparata propinata da "fonti del ministero" o "fonti anonime", che prefiguravano – tra le altre – la prossima creazone di un organo censorio governativo col compito di monitorare e approvare i contenuti pornografici offerti dalla rete. Tutta.
Firstpost, in una top 5 del ridicolo sulla censura del porno in India, riporta che nel 2010 le pagine internet che contenevano materiale pornografico erano più di 42mila, prevedendo – realisticamente – che il numero oggi sia cresciuto a livelli esponenziali.
Senza scandagliare migliaia di siti porno, l’anno scorso Quartz ha pubblicato un interessante articolo su come dove e quando gli indiani vedono porno in rete, basandosi sui dati raccolti da Pornhub, con tanto di infografiche su preferenze di ricerca, tempo di permanenza nel sito e variazioni degli accessi durante le festività (crollano durante Diwali, crescono durante la festa della Repubblica).
Più recentemente, e sarebbe un tema da approfondire, Hindustan Times ha squarciato il velo dell’ipocrisia raccontando che – rullo di tamburi – anche le nostre figlie, madri e sorelle indiane si vedono i porno. Si tratta di giovani donne dell’upper middle class, universitarie e professioniste, che non solo se lo guardano, ma si permettono addirittura di criticarlo, reclamando più contenuti pornografici a misura di donna.
Dove le protagoniste siano meno oggettificate e si inizi a raccontare una sessualità che comprenda, nelle variabili della perversione, anche la più impronunciabile: vedere una donna che gode come le pare, quando le pare, con chi le pare.
[Scritto per East online; foto credit: youtube.com]