Martedì 16 ottobre si è giocata la prima partita casalinga dei Delhi Dynamos, la squadra di calcio della capitale indiana dove milita Alessandro Del Piero. Matteo Miavaldi, assieme a un gruppo di coraggiosi italiani a Delhi, è stato allo stadio. E qui racconta cosa ha dovuto vedere e subire. #freepinturicchio.
Il Jawaharlal Nehru Stadium di New Delhi vanta una capienza di 60mila posti. Considerando l’hype con la quale qui in India è stata lanciata la sfavillante Indian Super League (Isl) di calcio, il terrore pre partita consisteva nell’immaginarsi a sgomitare in mezzo al tutto esaurito con caratteristiche indiane, immaginarsi una partita di calcio trasformata in sagra di paese, complice una politica dei biglietti decisamente nazionalpopolare.
L’entrata allo stadio variava dalle 200 rupie (due euro e mezzo, in curva) a oltre 18mila rupie (232 euro), prezzo per il quale si poteva – citando testualmente dal servizio di vendita online Book My Show – "godere della partita in tutta la sua gloria, in un cubicolo separato con cena a buffet!".
I nostri biglietti da 500 rupie, una ragionevole via di mezzo con posto a sedere nella tribuna sud Monte Mario, ci obbligavano al calvario dei controlli al gate 6: file separate per maschi e femmine in ottemperanza alla tutela del gentil sesso secondo la pratica della segregazione col sorriso in vigore nel paese, sequestro di monetine indiane per il valore di dieci rupie (salvate, per qualche astruso motivo, le sterline nel portafogli di un’amica), contrabbando illegale all’interno dello stadio di tabacco filtri e cartine, ricorrendo alla navigata strategia dell’immutandamento temporaneo, ché negli stadi indiani – come nel resto degli edifici pubblici, anche all’aperto – fumare è severamente vietato. E, stranamente, allo stadio non fuma nessuno.
Sorvolando sulla violenza psicologica operata dal legislatore nel privare lo spettatore della propria sacrosanta razione di nicotina durante un evento sportivo all’aperto, la presenza sugli spalti è miserrima, ad occhio e croce 15mila persone all’inizio del match, con altrettanti ancora bloccati fuori per i controlli al metal detector. Attorno a noi, nella Monte Mario, due sedili su tre sono vuoti e tra il pubblico ci sono solo esponenti della Delhi bene: smartphone ultima generazione, macchine fotografiche ultra professionali comprate su Flipkart (di cui parleremo estensivamente molto presto, anticipazione) per immortalare creazioni culinarie di madri ingioiellate – ma realizzate manualmente da didi sottopagate del Bihar – riciclate per l’evento sportivo, mogli / sorelle / fidanzate disperate per la scandalosa mancanza di copertura della rete 3g nello stadio (lamentela reiterata ogni 10 minuti in telefonate indignate con amiche non abbastanza fortunate per presenziare alla competizione sportiva).
Le sezioni più "popolari" sono semideserte, il terzo anello addirittura chiuso al pubblico, solo i posti Vip sono strapieni e alla fine del match, ad occhio e croce, ci saranno state non più di quarantamila persone.
Ci sono tutti gli elementi per decretare un cocente flop (considerando che quarantamila persone, a quei prezzi, a Delhi le possiamo tirare su organizzando un torneo di nascondino nei Lodi Garden con nemmeno una settimana di battage pubblicitario) che credo affondi le radici in un’operazione che, gasiamoci, chiameremo impropriamente (?) marketing top-down. Ovvero: il calcio in India, c’è poco da fare, è un non sport. Non esiste nell’immaginario collettivo, è roba da ricchi e da indiani della diaspora anglosassone, e il lancio di questa baracconata trash scintillante che è la Isl ne è la riprova.
Tutte le squadre sono proprietà di attori di Bollywood o mega industriali – e fin qui nulla di strano – ma utilizzano un linguaggio comunicativo a misura di upper-class, parlano a un pubblico che, se segue il calcio, segue i campionati stranieri, la Premier League in particolare. Tifa per la squadra del nipote che studia ad Oxford e/o tifa perché è cool.
Banalmente, il guidatore di riksha che ci ha riaccompagnato a casa dopo la partita era appena uscito dallo stadio. Aveva comprato il biglietto da 950 rupie, si diceva grande fan di calcio ma non ha saputo dirci un nome di un calciatore né indiano né straniero. "Ero curioso di vedere com’era una partita di calcio dal vivo". Non c’è passione, non ci sono sentimenti, non c’è alcun legame affettivo.
Purtroppo per lui – ma dubito qualcuno all’interno dello stadio avesse le competenze calcistiche per valutare la qualità dello spettacolo – la tortura di Delhi Dynamos vs FC Pune non è stata una partita di calcio; sono stati novanta minuti di un gioco noto nei campetti dei pulcini della Lomellina come "ciapa e tira", ovvero, prendi la palla e dagli un calcio. Uno "spettacolo" deprimente sotto ogni profilo agonistico, 22 persone in campo apparentemente senza alcuna idea di cosa stessero facendo, a parte i pochi occidentali che, da ex top player, si riscoprivano predicatori nel deserto e/o foche monache da circo, alle prese con un pallone sistematicamente brutalizzato ogni volta che capitava tra i piedi dei numerosi "giocatori" indiani.
Opinione non condivisa dal giornalista di Firstpost India, che nella cronaca post partita si spinge addirittura a candidare i Delhi Dynamos come "la squadra da battere", "solida a centrocampo", illuminata dalla genialità del Pinturicchio e dall’autorità del mister van Veldhofen, che si è addirittura permesso di far partire in panchina Del Piero. Segno, secondo Firstpost India, di leadership e saggia gestione di una panchina definita "lunga".
La partita è finita zero a zero, con credo quattro tiri nello specchio della porta e decine – ma parevano migliaia – di falli laterali, annunciati ogni volta da cinque secondi della colonna sonora ufficiale della Isl, "Il fischietto suonerà, la palla rotolerà, come on India let’s play football", sparati dagli altoparlanti del JN Stadium a volumi giudicati illegali secondo la Convenzione di Ginevra.
Nessun coro, nessun tifo organizzato, solo migliaia di persone curiose davanti a questa bestia strana venuta da lontano chiamata "calcio" giocato in un paese cresciuto a riso e cricket, improvvisamente svegliate dal torpore da piaga da decubito da una – questa sì spontanea – ola che ha fatto tutto il giro dello stadio per quattro o cinque volte. Ad un certo punto, mentre un lieve infortunio fermava il "gioco" in campo, i tifosi hanno iniziato a guardarsi tra di loro per paura di perdere il tempo della ola. Della partita non gliene fregava più nulla a nessuno.
Quindi, se quest’operazione mediatica intende lanciare il calcio a livello popolare nel paese, a creare una sorta di "football madness", credo che una volta esaurito l’effetto curiosità nessun rikshawala sano di mente spenderà più 950 rupie per andare allo stadio, men che meno lo farà l’indiano dell’upper class per un evento indubbiamente noioso e, presumo, dalla durata troppo breve per spingere chicchessìa a lasciare il proprio divano di casa.
Il cricket, nella versione più corta dei T20, dura almeno quattro ore. Per non parlare dei Test Match, che vanno avanti da mattina a sera. E questo è il modello di socialità da stadio col quale gli indiani sono cresciuti: vedere una partita come fosse una gita della domenica con pic nic annesso, dettaglio non indifferente considerando che tutti i sedili del JN Stadium – tranne il terzo anello – sono provvisti di tavolino ribaltabile, lasciando immaginare un’Indian Cricket Experience dal taglio cultural-gastronomico talmente diffusa e ben radicata da rendere vane le incursioni di questo triste surrogato di calcio importato senza arte né parte.
Detto questo, è ora dell’hashtag #freepinturicchio. L’uomo in campo ha sofferto e noi, sugli spalti, abbiamo sofferto di più.
[Scritto per Elefanti a parte, ospitato da East online; foto credit: corrieredellosport.it]