Dalle 11 di mattina alle tre di pomeriggio di ieri l’India si è parzialmente fermata per sostenere le proteste contro le liberalizzazioni nel settore agricolo varate dal governo nel mese di settembre.
LA PARTECIPAZIONE allo sciopero nazionale, indetto da numerose sigle sindacali del settore agricolo e sostenuto da trasportatori e negozianti, è stata molto alta nell’India settentrionale e in particolare attorno alla capitale New Delhi, dove da quasi due settimane sono accampati migliaia di contadini provenienti dagli Stati limitrofi di Punjab e Haryana, considerati i granai del Paese.
I manifestanti hanno bloccato quasi tutte le arterie stradali che collegano Delhi al resto del Paese, mentre nei principali centri abitati hanno sfilato per le strade delegazioni di contadini e di sostenitori dei numerosi partiti d’opposizione al Bharatiya Janata Party (Bjp), partito di governo guidato dal primo ministro Narendra Modi.
I contadini chiedono al governo di ritirare tre leggi approvate lo scorso settembre per aprire il settore agricolo al mercato, dando il via libera ai contadini di «vendere i propri prodotti direttamente ad aziende private». Questa, almeno, è la versione dell’esecutivo di Modi.
LO STESSO PRIMO MINISTRO, pochi giorni fa, durante una videoconferenza si è rivolto ai manifestanti spiegando: «Non possiamo costruire il prossimo secolo con leggi del secolo scorso. Alcune leggi andavano bene nel secolo scorso, ma oggi rappresentano un fardello».
Fino a settembre, da decenni, il sistema della vendita di prodotti agricoli in India era regolato da una forte presenza dello Stato.
I contadini vendevano i propri prodotti ai mercati generali statali («mandi») servendosi di mediatori locali che, a loro volta, rivendevano la merce ai distributori al dettaglio. Il sistema, pur antiquato e farraginoso, rispecchiava fedelmente lo stato dell’arte dell’agricoltura in India: un settore che impiega oltre la metà della forza lavoro nazionale e vale il 14 per cento del Pil.
Ma soprattutto, un settore dove oltre l’86 per cento di chi lavora nell’agricoltura possiede appezzamenti di terra sotto i due ettari. Un esercito di braccianti costantemente sul filo della sussistenza e senza la disponibilità economica necessaria ad ammodernare sensibilmente la produzione.
QUESTO ESERCITO di piccoli produttori agricoli per decenni è stato in minima parte tutelato dal prezzo minimo di vendita statale. Ovvero, lo Stato si impegnava ad acquistare dai contadini la loro merce ad un prezzo minimo prefissato, indipendentemente dalle fluttuazioni del libero mercato.
Con le liberalizzazioni varate – dicono i rappresentanti dei contadini, senza consultare le sigle sindacali – i lavoratori del settore agricolo temono di perdere anche la tutela del prezzo minimo di vendita, finendo costretti a sottostare ai termini imposti dalla grande distribuzione privata.
Nonostante il governo abbia più volte ribadito che il «sistema dei mandi» rimarrà in vigore come alternativa alla vendita diretta al settore privato, i contadini non si fidano. Vogliono che l’esecutivo cancelli le tre «black laws».
Quando la scorsa settimana decine di migliaia di contadini dal Punjab e dall’Haryana hanno provato a raggiungere il centro di New Delhi per manifestare, sono stati respinti dalle forze dell’ordine.
Le immagini di anziani contadini caricati dalla polizia e bersagliati da lacrimogeni e idranti hanno fatto il giro dei media internazionali e scosso l’opinione pubblica indiana.
Oggi è previsto un nuovo colloquio tra le parti – il sesto in dieci giorni, mentre il presidente della Repubblica indiana riceverà una delegazione di cinque membri delle opposizioni a sostegno della protesta.
[Pubblicato su il manifesto]