India – Scandalo 2G scam: Congress nel mirino

In by Simone

Nuovi sviluppi del maxi processo per la svendita di licenze telefoniche del 2008, peggiore scandalo nella storia indiana. Come funzionava il giro di mazzette, quali le compagnie coinvolte e cosa c’entra – ancora – il partito del Congress.
L’India è sinonimo anche di hi-tech e telecomunicazioni, un gigante da 800 milioni di utenze telefoniche che negli ultimi ha fatto gola a numerose compagnie straniere che non vedevano l’ora di mettere le mani sul mercato della telefonia della democrazia più grande del mondo.

Il governo indiano ha massimizzato gli stimoli del mercato interno intraprendendo la strada delle liberalizzazioni nelle telecomunicazioni, aprendo le porte a joint venture straniere per investire nella telefonia mobile nazionale.
Nel 2008 furono messe all’asta 122 licenze per operare in territorio indiano con la tecnologia 2G, ma qualcosa non è andato per il verso giusto.

Giovedì 2 febbraio la Corte Suprema ha infatti cancellato le 122 licenze telefoniche che il governo della United Progressive Alliance (UPA), ancora oggi in carica, aveva venduto a prezzi decisamente inferiori al valore di mercato. L’asta delle licenze 2G fruttò al governo guidato dal partito del Congress solo 1,8 miliardi di dollari, mentre solo due anni dopo l’asta per il 3G di miliardi di dollari nelle casse di Delhi ne portò quasi 14.

E’ il primo esito concreto di un maxi processo iniziato lo scorso novembre noto come il 2G scam trial, un’azione legale che ha nel mirino esponenti di spicco della UPA, alcuni con cariche di governo, giornalisti – tra cui la nota Barkha Dutt della NDTV – ed imprenditori, tutti accusati di corruzione o collusione

L’imputato principale è A. Raja, 49 anni, ministro delle Telecomunicazioni all’epoca dei fatti: secondo l’accusa Raja sarebbe a capo dell’enorme giro di mazzette creatosi intorno alla svendita delle licenze da parte del governo, una frode che è costata all’India intorno ai 40 miliardi di dollari. Quattro volte la somma che ogni anno il governo di Delhi destina al suo programma di previdenza sociale.

Il meccanismo era molto semplice: il governo indiano, nel percorso di liberalizzazione delle telecomunicazioni nazionali, metteva all’asta le licenze per operare sul territorio come fornitore di servizi di telefonia mobile. Le compagnie in gara per le licenze non partecipavano però ad una selezione chiara e trasparente, ma la vendita veniva accordata su un vago principio di “chi prima arriva meglio alloggia”. I vincitori venivano in realtà selezionati secondo un personalissimo metro di giudizio del ministro Raja, innescando una serie di operazioni di mercato di dubbia legalità.

Come spiega Paranjoy Guha Thakurta sul magazine indipendente Tehelka, alcune aziende sfruttarono l’acquisto di una licenza a prezzi stracciati per rivendere le proprie azioni a quotazioni stratosferiche.

E’ il caso della Swan Telecom, che nel settembre 2008 vendette il 45% delle sue azioni alla saudita Etisalat per 900 milioni di dollari, prezzo giustificato dall’acquisto di una licenza telefonica indiana alla cifra irrisoria di 310 milioni di dollari.
Stesso discorso per la Unitech Wireless, che si era aggiudicata una licenza per 315 milioni di dollari. La norvegese Telenor comprò il 60% della compagnia indiana per 1,25 miliardi di dollari.

Sia la Swan Telecom che la Unitech Wireless, al momento della transazione, vantavano un solo patrimonio: il permesso di poter fornire servizi telefonici in un Paese in enorme espansione tecnologica.

A seguito della sentenza della Corte Suprema, tutte le licenze rilasciate nel 2008 sono da considerarsi nulle ed entro quattro mesi verrà organizzata una nuova asta.

Per le compagnie coinvolte nello scandalo – tra cui figurano big della telefonia nazionale come Tata ed Idea – il danno economico si prospetta enorme, anche se la Corte non ha ordinato la sospensione dei servizi telefonici coinvolti nella vicenda.

Siamo stati trattati in un modo irregolare, avevamo solo seguito le indicazioni del governo” ha dichiarato un portavoce di Uninor a pochi minuti dalla sentenza. “E’ uno shock vedere come Uninor sia penalizzata a causa di mancanze che la Corte stessa ha individuato nel processo di selezione portato avanti dal governo”.

Nonostante il dimissionario A. Raja sia da mesi in carcere in attesa di un verdetto, il governo dell’UPA appare in effetti invischiato fino al collo in questo scandalo che gli indiani giudicano il più grave nella storia dell’India indipendente.

L’obiettivo politico è quello di dare la spallata definitiva al Congress, primo partito in India e leader della coalizione di governo.
Subramanian Swamy, 72 anni, presidente del Janata Party, è il primo firmatario della denuncia alla base del processo 2G scam: a seguito della sentenza ha descritto il verdetto come la prova del “fallimento collettivo del governo indiano”, insistendo sulla necessità di processare anche una delle personalità di spicco del governo Singh, il ministro degli Interni P. Chidambaram, 66 anni, che nel 2008 ricopriva la carica di ministro delle Finanze.

Swamy da mesi sostiene che Raja agisse col beneplacito del ministro Chidambaram e lo scorso anno chiese alla Corte Suprema di aggiungerlo alla lista degli indagati, accusandolo di collusione.
Ma la Corte Suprema ha deciso di astenersi dal giudicare l’attuale ministro degli Interni, lasciando che fosse una speciale commissione appuntata dal Central Bureau of Investigation (la FBI indiana) a pronunciarsi in merito.

I potenti del Congress hanno subito fatto quadrato attorno a Chidambaram, scaricando la responsabilità dello scandalo sulla precedente amministrazione della National Democratic Alliance, coalizione di centrodestra al potere fino al 2004, e sul già indagato ex ministro Raja.

Secondo il ministro delle Telecomunicazioni indiano Kapil Sibal la svendita delle licenze è semplicemente dovuta all’applicazione del metodo “chi prima arriva meglio alloggia”, introdotto dalla NDA nel 2003 e rispettato dalla UPA una volta al potere. Un sistema poco trasparente piegato a proprio piacimento da Raja senza che né il primo ministro Singh né l’allora ministro delle Finanze Chidambaram fossero al corrente di nulla.

I partiti di opposizione, Bharatiya Janata Party su tutti, si sono uniti nel chiamare a gran voce le dimissioni di Chidambaram, eventualità che il governo Singh non sembra voler assecondare.

Il 4 febbraio la speciale Corte della CBI ha annunciato di non aver trovato nessuna prova consistente che possa incriminare il ministro degli Interni, respingendo quindi la richiesta di Swamy.

Il presidente del Janata Party ha accettato la sentenza, promettendo però di ricorrere in appello, certo della colpevolezza di Chidambaram. Un ipotesi che se avvalorata rappresenterebbe un colpo fatale per la credibilità traballante del Congress.

[Foto credit: sampatpatnaik.blogspot.com]