L’uomo a capo del gigantesco gruppo Tata, presente in oltre 80 Paesi nei settori più disparati, darà le dimissioni il 28 dicembre, all’eta di 75 anni. Storia di un manager schivo e rivoluzionario, tra controversie locali e un filantropismo da record. Luci e ombre dell’ultracapitalismo indiano.
Solo al vertice di una delle multinazionali più grandi del mondo. Riservato, schivo, celibe senza figli, a poche settimane dall’autopensionamento. Ratan Tata, 74 anni, è uno degli uomini più potenti del mondo, il signore a capo del Tata Group, una costellazione di aziende che abbraccia ogni settore dell’economia indiana e che vanta, secondo i dati di fine ottobre, entrate per 100 miliardi di dollari all’anno.
Entro fine dicembre, seguendo le regole interne del gruppo, Ratan Tata si ritirerà a vita privata, lasciando le chiavi del marchio simbolo del miracolo economico indiano a Cyrus Mistry, fratello di sua cognata. Un passaggio di consegne tutto in famiglia, come da tradizione.
E il fatto che il giovane Mistry (44 anni) sia cittadino dell’Irlanda del Nord non ha evidentemente costituito un ostacolo alla sua nomina in pectore.
Mistry, come Tata, è prima di tutto un parsi, popolo di fede zoroastriana migrata dell’Asia centrale in India che oggi si concentra principalmente nello Stato del Maharashtra.
Dei 100mila parsi censiti al mondo, quasi 70mila si trovano a Mumbai, dando vita ad una comunità decisamente benestante, elitaria e impermeabile alle contaminazioni esterne. I parsi si frequentano tra di loro e, tendenzialmente, si sposano tra di loro, motivo per il quale sono oggi una stirpe in via d’estinzione: molti, piuttosto che sposarsi fuori dalla comunità, preferiscono non farlo.
Ratan Tata appartiene a quest’ultima categoria. Single per scelta, lavoratore instancabile, secondo le pochissime interviste rilasciate in oltre 30 anni di attività imprenditoriale ai massimi livelli, la tentazione del matrimonio lo ha accarezzato “tre o quattro volte”.
Ci è andato molto vicino negli Stati Uniti, ha raccontato alla Cnn, mentre studiava architettura alla Cornell University. Ma poi arrivò la chiamata dall’India di "nonno" J.R.D. Tata, presidente del gruppo, che voleva accanto a sé il suo brillante nipote educato nelle più prestigiose università americane. Era il 1962, India e Cina erano in guerra, la potenziale signora Tata non se la sentì.
Ratan Tata iniziò la sua carriera all’interno delle conglomerate, risanando aziende sull’orlo del fallimento per poi vederle soccombere sotto i vincoli dell’economia socialista plasmata dalla dinastia Nehru-Gandhi, in particolare nella parentesi dittatoriale di Indira Gandhi e della sua cosiddetta Emergency di fine anni ’70.
Tata nel mondo
La svolta arrivò nel 1991, quando al suo insediamento alla presidenza del Tata Group coincisero le riforme economiche di Manmohan Singh – allora ministro delle Finanze, oggi primo ministro – e l’alba di una nuova stagione per quella che fu la perla delle colonie britanniche.
Il Tata Group era all’epoca un animale a molte teste che si muoveva sgraziatamente entro il recinto del mercato indiano, fiaccato dai protagonismi di manager irrequieti ma protetto dall’economia indiana ricalcata sul modello sovietico.
Mentre Singh apriva l’India al mercato globale, Ratan Tata si liberò della vecchia dirigenza a suon di prepensionamenti d’oro, dando una sterzata al polimorfo gruppo Tata che comprendeva acciaierie, prodotti chimici, cibi e bevande, radio, hotel, centrali elettriche, hi-tech e tecnologia, software, cosmetici.
Imponendo alla costellazione del gruppo il marchio Tata (Tata Motors, Tata Coffee, Tata Industries…), il giovane imprenditore impose la sua visione globale, indirizzando la superpotenza indiana alla conquista dei mercati stranieri.
Mentre la presenza in patria di Tata si consolidava, le acquisizioni straniere iniziarono ad arrivare con cadenza impressionante dall’inizio degli anni duemila.
Tetley (tè, Gran Bretagna), Daewoo Motors (automobili, Corea del Sud), Millenium Steel (acciaio, Thailandia), Jaguar e Land Rover (automobili, Gran Bretagna), Piaggio Aero Industries (aviazione, Italia), China Enterprise Communications (telecomunicazioni, Cina) sono solo una manciata tra le decine di acquisizioni Tata nell’arco di dieci anni.
Nel 1991 il fatturato del Tata Group si aggirava intorno ai due miliardi di dollari, tutti provenienti dal mercato indiano; oggi, di quei 100 miliardi di dollari di entrate annue, quasi il 60 per cento arriva dall’estero, dove Tata, col suo centinaio di aziende, è presente in oltre 80 Paesi.
Capitalismo aggressivo e filantropia
In India il marchio Tata è onnipresente. I suoi tentacoli abbracciano la vita indiana di tutti i giorni senza apparente via di scampo. La scrittrice Arundhati Roy, strenua avversaria dell’ultracapitalismo indiano, in un celebre articolo ripreso da diverse testate giornalistiche nel mondo scrisse:
“Tutti noi guardiamo Tata Sky, navighiamo in rete con Tata Photon, giriamo nei taxi Tata, dormiamo negli hotel Tata, sorseggiamo il nostro tè Tata nelle nostre tazzine Tata girandolo coi nostri cucchiaini di acciaio Tata. Compriamo i libri Tata nelle librerie Tata. Hum Tata ka namak khatey hain (Ci mangiamo il sale Tata, nda). Siamo sotto assedio”.
All’intuizione visionaria di Ratan Tata si deve la Tata Nano, la monovolume low cost, la pietra miliare che Tata avrebbe voluto lasciare ai posteri.
L’illuminazione arrivò davanti ad una scena estremamente comune nel subcontinente indiano: vedendo una famiglia di quattro persone appollaiata sul sedile di una motocicletta, Tata provò ad immaginare l’avvento rivoluzionario di un’automobile in formato ridotto, snella.
Una quattro posti al prezzo record di “1 lakh” (100mila rupie, intorno ai 1400 euro), adatta al traffico caotico delle megalopoli indiane ed alle tasche di una classe media smaniosa di status symbol.
La produzione della Nano si rivelò presto un boomerang, una campagna di Russia dalla quale il gruppo Tata uscì con le ossa rotte.
A Singur, località del Bengala occidentale dove Tata – grazie alla mediazione del governo comunista locale – aveva acquistato 997 acri di terreno coltivabile per far sorgere la prima fabbrica di Nano, nel 2008 i contadini sollevarono un protesta ad oltranza bloccando la produzione, accusando Tata ed il governo comunista di aver strappato con la forza parte dei terreni, rifiutandosi di accordare ai legittimi proprietari un compenso adeguato.
La sommossa popolare ebbe un’eco di respiro internazionale, grazie anche all’aperto endorsement di Mamata Banerjee, leader dell’opposizione in Bengala occidentale che, mostrandosi al fianco dei contadini, stravinse le elezioni locali.
Ratan Tata fu costretto a chiudere lo stabilimento e spostarsi in Gujarat, incolpando la Banerjee della debacle: “Se qualcuno ti punta la pistola alla testa, o levi la pistola o premi il grilletto. Io non ho mosso la mia testa. Credo che la signora Banerjee abbia invece premuto il grilletto”.
La Tata Nano, inoltre, si rivelò un flop: errori di progettazione e vendite al di sotto delle aspettative ne fanno oggi una grande promessa non (ancora) mantenuta.
La controversia di Singur arrivò due anni dopo il tragico episodio di Kalinganagar, in Orissa, dove la polizia sparò contro i tribali che protestavano contro un’acciaieria Tata, buttando Ratan Tata nell’agone dei “padroni capitalisti”, schiacciasassi che nel nome del progresso e del profitto calpestano i diritti degli ultimi.
Nonostante i detrattori, Ratan Tata ha però una granitica fama di filantropo, anche grazie all’assetto etico che ha imposto al gruppo. Il 66 per cento delle azioni Tata è controllato da fondazioni caritatevoli presiedute da uomini personalmente appuntati dal signor Tata.
Significa che due terzi dei profitti di borsa vengono destinati ad Ong e progetti attivi nel sociale, donazioni per la ricerca, ospedali, facendo di Ratan Tata il Bill Gates del subcontinente. Un esempio più unico che raro nella giungla dell’imprenditoria indiana: solo nel 2010, secondo Forbes, Tata ha devoluto in beneficenza oltre 62 milioni di euro.
Pilota d’aviazione provetto, amante dei motori – amico personale di Luca Cordero di Montezemolo e, fino a pochi mesi fa, seduto al CdA della Fiat, col quale Tata ha intrattenuto una partnership in India ritirata di recente – Ratan Tata è l’uomo invisibile del jet-set indiano.
Allergico alle serate di gala e restìo ad ostentare “la roba”, Ratan Tata si descrive come un uomo senza nemici, preoccupato non tanto di chiudere contratti miliardari ma, ha riportato l’Economist, “di andare a letto la sera e sapere di non aver fatto del male a nessuno”.
Il 28 dicembre, giorno del suo 75esimo compleanno, Ratan Tata rassegnerà le proprie dimissioni davanti ai soci di Tata Group, preparandosi probabilmente ad un futuro da filantropo a tempo pieno dalla sua villa a Colaba, quartiere di lusso di Mumbai.
E come diversivo, parole di Ratan Tata lo schivo, lunghe passeggiate in riva al mare col cane.
[Scritto per Linkiesta; foto credit: ibtimes.co.uk]