Nel 1962 Yin Marsh, immigrata cinese, viveva in Darjeeling, distretto montagnoso del Bengala occidentale. A differenza di molti cinesi in India, che durante il conflitto sino-cinese furono internati in campi di prigionia in Rajasthan, lei si salvò. Intervista all’autrice del libro di memorie Doing time with Nehru.
Riceviamo da Maura Fancello, autrice della tesi pubblicata su Sinologie La guerra sino-indiana: la diaspora dimenticata e traduttrice di un articolo sull’anniversario del conflitto sino-indiano uscito su Caratteri Cinesi, lo scambio di lettere tra Maura e Yin Marsh al quale è seguita un’interessante intervista. Pubblichiamo volentieri entrambi, in forma integrale, nella speranza che la testimonianza di Yin Marsh vi colpisca come ha colpito la redazione di China Files. Cogliamo inoltre l’occasione per ringraziare nuovamente Maura per aver condiviso il suo lavoro con noi. CF
–
Artista, volontaria, insegnante e con Doing time with Nehru anche scrittrice, Yin Marsh dopo anni di silenzio ha raccolto le sue memorie, offrendoci all’interno del suo libro una diretta testimonianza delle ingiustizie che la comunità sino-indiana dovette subire a causa del deteriorarsi delle relazioni politiche fra Cina e India e al conflitto del 1962. Dopo aver letto l’opera mi sono messa in contatto con l’autrice, riporto dunque di seguito la nostra interessante conversazione che comincia con una mia breve e-mail del 30 ottobre 2012 e prosegue fino al 18 Novembre 2012.
Cara Yin Marsh,
Ho il piacere di parlare direttamente con l’autrice del libro “Doing Time with Nehru”?
Mi chiamo Maura Fancello, sono una studentessa dell’università di Roma “La Sapienza”, nel mese di dicembre completerò il mio percorso di studi in “Lingue e civiltà orientali”. Ho scelto di trattare quale tematica della mia tesi la storia della comunità sino-indiana in India e delle sue chinatown, ritengo infatti sia molto importante oggi, a cinquant’ anni dal conflitto sino-indiano, parlare delle ripercussioni che questo ebbe nei confronti della comunità cinese e dell’attuale situazione della chinatown di Dhapa.
In data 30 Ottobre 2012, Yin Marsh mi ha risposto:
Si, sono io. Sono rimasta stupita del fatto che qualcuno dall’Italia fosse interessato al mio libro e adesso ne capisco il motivo. Potresti essere interessata alle ragioni che mi hanno spinto alla scrittura del memoir. In seguito a quanto accaduto alla mia famiglia dopo lo scoppio della guerra di confine sino-indiana, non ho voluto parlare della faccenda, volevo solo iniziare una nuova vita, così sono passati quarant’anni.
Ho iniziato ad aprirmi riguardo l’accaduto dieci anni fa, quando mia figlia, che seguiva un corso sulla tradizione orale all’università, iniziò ad incuriosirsi riguardo la storia di famiglia, sentii che era trascorso abbastanza tempo e iniziai ad aprirmi al mio passato. In seguito nel 2003, in occasione di una rimpatriata scolastica, ho percepito un vero e proprio campanello di allarme quando ho scoperto che nessuno, nemmeno un solo indiano, sapeva che la comunità sino-indiana fu internata in campi di prigionia a seguito del conflitto. Trovai dunque il coraggio di iniziare a parlare della faccenda e raccontare alle persone quanto era accaduto. Nessuno, di quanti ho incontrato finora, era a conoscenza di questa parentesi nella storia indiana. Ho sentito dunque il dovere di raccontare la mia storia.
Nella sua biografia ho letto che è nata a Calcutta, cresciuta a Darjeelig e all’età di tredici anni immigrò con la sua famiglia negli Stati Uniti. Oggi risiede in California, ma durante la sua vita ha compiuto numerosi viaggi. Fra tutti i posti in cui ha vissuto ce n’è uno a cui sente di appartenere in modo particolare?
Ho vissuto in Brasile, Colombia, Africa e ho apprezzato tutti questi Paesi, particolarmente il Brasile e la Liberia, ma il luogo in cui mi sono sentita più a mio agio sono le Hawaii, probabilmente a causa della miscela multiculturale del luogo– Hawaiana, cinese, giapponese, filippina, portoghese, ecc.
In seguito alla guerra di confine sino-indiana la maggior parte dei cinesi residenti sul territorio indiano decise di muoversi verso il Canada, perché lei e la sua famiglia avete invece scelto gli Stati Uniti?
La maggior parte dei cinesi residenti in India provenivano dalle province costiere del sud della Cina, emigravano alla ricerca di migliori condizioni di vita originando delle vere e proprie migrazioni di massa.
La storia dei miei genitori è differente. Mio padre proveniva dal Sikang, oggi incorporato alla provincia del Sichuan sul confine tibetano, mia madre era invece di Yangzhou. Entrambi parlavano dunque mandarino e non i dialetti del sud. Mio padre fu inviato in India dalla sua compagnia di import-export che aveva sede a Chongqing. Mia madre non fu mai internata perché allo scoppio del conflitto si trovata in Nepal alla ricerca di nuove opportunità lavorative. Fu lei che in seguito riuscì ad organizzare il rilascio per me e mio fratello.
Dopo il conflitto i miei genitori si separarono e lei si risposò con un americano, quindi ci trasferimmo negli Stati Uniti. Mio padre fu internato per sedici mesi e quando fu rilasciato gli fu interdetto di far ritorno a Darjeeling , perse tutte le sue proprietà. Tornò dunque a Calcutta ma dopo tre anni di tentativi per ristabilirsi realizzò di non poter essere felice finchè la famiglia fosse rimasta divisa, chiese dunque a mia sorella che viveva negli Stati Uniti di finanziare la sua partenza.
Ho letto che lei parla diverse lingue, come mai a scelto di scrivere il suo libro proprio in inglese?
Sebbene parli diverse lingue (molte delle quali sono oggi arrugginite), fui inviata in collegio dai quattro ai dodici anni, un convento cattolico in cui la lingua di comunicazione era l’inglese, così questa è la lingua in cui sono più fluente.
La sua identità è in parte cinese, in parte indiana e in parte americana. La scrittura di questo libro è stato per lei un modo di riunire i differenti aspetti della sua identità?
Sì, ha colpito nel segno! Per quarant’anni mi sono sempre sentita americana, del resto l’America era l’unico Paese a garantirmi la cittadinanza. Sebbene sia nata in India, la cittadinanza non mi fu mai concessa. A causa dell’internamento della comunità sino-indiana mi vergognavo di essere cinese e così non parlai della faccenda per anni. I quattro anni di composizione dell’opera sono stati catartici. Mia figlia ha riassunto la mia situazione molto bene nella prefazione del libro: ”Mia madre sembra essere in pace con se stessa e completa nella sua identità come non lo era mai stata. E’ nel contempo cinese, americana e indiana.”
Ottobre 2012 ha segnato il cinquantesimo anniversario del conflitto sino-indiano. Come pensa che la comunità sino-indiana, il governo cinese e indiano si siano rapportati a tale avvenimento?
So che in Canada si terrà una commemorazione degli avvenimenti il 18 novembre. Sono stata invitata a prendervi parte e tenere un discorso ma come sa al momento sono impegnata nella promozione del libro tra Birmania, Thailandia e India. Non sono sicura che il governo indiano stia preparando qualche evento, la comunità sino-indiana aspetta ancora di ricevere le scuse ufficiali in merito alla faccenda. Sarebbe invece interessante vedere cosa stia preparando per l’occasione la comunità cinese di Calcutta.
Durante le mie ricerche riguardo la comunità sino-indiana ho scoperto che all’inizio del XX secolo si trovavano una mezza dozzina di concerie europee nella zona di Dhapa, i cui proprietari erano per lo più italiani che furono arrestati e internati in Rajasthan quando l’Italia si alleò con la Germania nazista durante la seconda guerra mondiale. Essi furono considerati cittadini di uno stato nemico da parte del governo coloniale inglese e poi espulsi dall’India alla fine del conflitto. Ha mai sentito parlare della faccenda?
Non avevo mai sentito parlare della faccenda fino a poco tempo fa quando fu permesso di visitare il campo e furono ritrovate placche delle diverse nazionalità che furono internate.
Lei ha detto che presa consapevolezza del fatto che questo capitolo della storia indiana è poco conosciuto si è sentita in dovere di raccontare la sua storia. Scrivere questo libro e prendere una parte attiva nella condivisione della sua storia l’ha aiutata ad esorcizzare il suo passato?
Si, è stato così. Non ho parlato della faccenda per decenni e adesso sono serena nel condividere il mio passato con chiunque abbia voglia di ascoltarmi.
Per inciso, ho portato alcuni libri alla riunione scolastica in Birmania. Abbiamo frequentato la scuola a Darjeeling ma uno dei vecchi allievi oggi vive in Birmania e ha suggerito di riunirci lì. Avevo i libri sul tavolo di registrazione con alcuni volantini introduttivi. Le persone li guardavamo ma nessuno li comprava. Ho venduto una sola copia a una persona che aveva letto il mio sito web.
Così il quarto giorno chiesi all’organizzatore se fosse possibile avere cinque o dieci minuti per parlare del mio libro. L’unico momento disponibile era in autobus, sulla strada per l’escursione. C’erano due mezzi, così presentai il libro sul primo autobus durante il viaggio di andata e sul secondo sulla via del ritorno. Su sessanta persone solo quattro erano forse al corrente dell’internamento cinese. Ho venduto venti copie!
[Foto credit: outlookindia.com]