India – Pragaash: musica, Islam, donne e democrazia

In by Simone

Le Pragaash, la prima rock band al femminile in Kashmir, sono state costrette a smettere di suonare a due mesi dal debutto. Il governo accusa gli estremisti musulmani, ma la storia di queste tre adolescenti rivela le ombre della democrazia indiana, in particolare nella gestione del Kashmir.
Tre adolescenti musulmane, chitarra basso e batteria. La storia delle Pragaash, “la prima rock band kashmira al femminile”, sembrava scritta apposta per una trasposizione bollywoodiana, pronta a trasformarsi in un film campione d’incassi e di buonismo, come piace al pubblico indiano.

Ma grazie all’intervento del governo locale e di una controversa autorità musulmana, amalgamati con una buona dose di deficienza da social network, le Pragaash (“primo raggio di luce” in kashmiri) hanno smesso di sognare a un paio di mesi dal debutto.

Farah Deeba, Aneeka Khalid e Noma Nazir frequentavano la class 10 (la nostra terza media) nella stessa scuola di Srinagar, capitale del Jammu e Kashmir. Figlie della upper middleclass urbana, passavano ore in sala prove guidate dal loro mentore e manager Adnan Mattoo, un’istituzione nella scena rock kashmira: la sua band, i BloodRockz, è una delle pochissime formazioni famose a livello nazionale.

Le tre ragazze, corteggiate dalla stampa che già scaldava le rotative a fine ottobre 2012, rilasciano interviste misurate ma decise. Con influenze che spaziano dai Metallica ad Avril Lavigne, le Pragaash dichiaravano al magazine Tehelka di essersi avvicinate al rock per allontanarsi dalla “prevedibilità della vita in Kashmir”, dal futuro che la società aveva già scritto per loro.

Esordiscono ufficialmente davanti al grande pubblico alla fine di dicembre, partecipando alla Battle of the Bands col loro repertorio sufi rock. Come i BloodRockz, le Pragaash mettono in musica rock i testi della tradizione sufi, la branca più mistica ed eterodossa dell’Islam che proprio in Kashmir vide nascere alcuni dei propri maggiori esponenti.

L’orgoglio sufi è uno dei tratti distintivi del popolo kashmiro, esaltato anche dai movimenti di liberazione del Kashmir – una delle ferite rimaste aperte dalla tragica Partizione tra India e Pakistan del 1947 – che negli anni Novanta si scontrarono violentemente con le forze armate del governo centrale di Delhi.

Il sufi rock delle Pragaash, che parafrasando le dichiarazioni di Noma Nazir alla stampa “vuole raccontare le sofferenze del nostro popolo”, è risuonato all’interno dell’Indoor Stadium di Srinagar, nella competizione musicale sponsorizzata – tra gli altri – dalla Central Reserve Police Force, le forze armate del governo federale mandate da Delhi ha contrastare le insurrezioni indipendentiste.

Gente che, tra violazioni dei diritti umani, fosse comuni di militanti – veri o presunti – e torture nelle stanze degli interrogatori, di sofferenze del popolo kashmiro se ne intende.

Chi c’era racconta di una standing ovation spontanea quando le tre ragazze hanno intonato la loro versione rock di una poesia di Bulleh Shah, mistico sufi del diciottesimo secolo. Le Pragaash arrivano terze, portano a casa 6000 rupie (meno di 100 euro) e una discreta notorietà, adombrate dalla barbarie dello stupro di gruppo della studentessa di Delhi.

Passa poco più di un mese, l’allarme stupri e misoginia rientra entro i normali livelli di guardia – ovvero l’oblio, qui non se ne parla quasi più – e l’India si accorge improvvisamente delle Pragaash non per particolari qualità artistiche, ma per gli insulti che le tre ragazze hanno iniziato a ricevere sui social network.

Una serie di utenti, coperti dall’anonimato della rete, sulla pagina Facebook del gruppo si lasciano andare allo sport nazionale dell’insulto becero con giustificazione religiosa, uno dei macroscopici effetti collaterali della democrazia più grande del mondo.

Alle Pragaash viene augurato di essere stuprate, additate come svergognate, oscene, viziate. L’insulto che va per la maggiore? Essere anti-islamiche.

Lo sfoggio di ignoranza e rancore per le offese alla “sensibilità religiosa” di una comunità – in India la permalosità è forse l’unica caratteristica che accomuna hindu, musulmani e cristiani – rientra nella sterminata casistica del dissenso interno.

In quegli stessi giorni, ad esempio, nel sud dell’India un film veniva ritirato dalle sale per aver urtato la sensibilità musulmana, mentre Ashis Nandy è stato costretto a fuggire dal Jaipur Literature Festival per aver urtato la sensibilità dei dalit (i fuoricasta del sistema hindu, accusati dal celebre sociologo di essere particolarmente inclini alla corruzione).

Come da copione, anche nel caso delle Pragaash, le istituzioni hanno sentito il dovere di intervenire a salvaguardia della libertà d’espressione. Omar Abdullah, chief minister del Jammu e Kashmir, all’inizio di febbraio su Twitter scrive: “Spero che queste tre giovani talentuose non si facciano zittire da una manciata di idioti”.

Fino ad allora la situazione appariva sotto controllo, con la cantante del gruppo Noma Nazir che tentava di abbassare la tensione: “Non si tratta di minacce di criminali, ma semplici insulti ed intimidazioni di adolescenti probabilmente gelosi di noi”.

Ma i bulldozer dell’infotainment indiano si erano lanciati sull’ennesima storia di emancipazione negata, tratteggiando il sogno adolescenziale di tre ragazze moderne – “ma buone musulmane, pregano cinque volte al giorno” assicurano le madri – minacciato dalle frange estremiste kashmire.

Pochi giorni dopo, Bashir-u-Din, Gran Mufti del Kashmir – più alta autorità della legge islamica sunnita, vicino al governo locale, fino a quel momento illustrissimo sconosciuto – lancia una fatwa contro le Pragaash. Secondo il dotto islamico “la musica non fa bene alla società” e le ragazze dovrebbero fare propri altri principi e valori islamici.

Posizione assolutamente minoritaria in gran parte del mondo islamico e in particolare in Kashmir, dove tra gli artisti di spicco della scena musicale locale figurano diverse donne (una è anche la moglie di un ministro).

La fatwa, opinione legalmente irrilevante in un Kashmir dove non vige una teocrazia, viene criticata non solo dai gruppi laici, ma anche da diversi membri della Hurriyat, la conferenza dei partiti indipendentisti kashmiri descritti da Delhi come gruppi estremisti di matrice islamica.

Nonostante ciò, le parole del Gran Mufti vengono amplificate a dismisura dai media indiani, raccontando un Kashmir intollerante e retrogrado decisamente distante dalla realtà.

La tensione cresce, le dichiarazioni aumentano, si fanno dibattiti televisivi sul tema “Perché l’India non riesce a difendere la propria libertà d’espressione?”, fino a quando le Pragaash – nel frattempo scappate a Delhi in cerca di tranquillità – annunciano lo scioglimento: “Come ha detto il Gran Mufti, siamo anti-islamiche, per questo smettiamo”.

“Hanno vinto gli estremisti”, lamentano i social network, mentre la polizia risale alle identità di tre dei commentatori rei di aver minacciato ed insultato le Pragaash, li arresta e li condanna a una decina di giorni di carcere. Il governo locale esulta, mostrando l’efficienza di un esecutivo che punisce in modo esemplare tre pericolosissimi studenti tra i 17 e i 24 anni.

E in Kashmir, con tre ragazze ex musiciste non ancora maggiorenni e tre ragazzi arrestati per un reato d’opinione su Facebook, la libertà d’espressione è tornata a trionfare.

[Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata su Left; foto credit: abc.net.au]