In un’India a due velocità con 300 milioni di poveri secondo gli standard internazionali, alcune decine di imprenditori detengono patrimoni multimiliardari. Nell’ultima lista redatta da Forbes per il 2014, l’India è il quinto paese per multimiliardari, un club elitario guidato dal magnate Mukesh Ambani, presidente del gruppo Reliance.
Se sul numero di poveri in India si può dibattere anche ferocemente, in una gara al ribasso per fissare la soglia di “povertà relativa” nel paese, sui miliardari del secondo paese più popoloso al mondo le convergenze sono decisamente maggiori.
Il mese scorso il magazine Forbes ha stilato la propria classifica globale dei miliardari 2014, guidata senza sorpresa dall’ex Ceo di Microsoft ed ora “filantropo di professione” Bill Gates con un patrimonio stimato di 76 miliardi di dollari.
Ma anche l’India, nonostante il rallentamento della crescita dovuto alla crisi economica globale, è presente in forze, posizionandosi al quinto posto tra le nazioni con più miliardari. Il gruppo dei multimiliardari indiani, secondo Forbes composto da 70 persone, è formato da una serie di imprenditori a capo delle principali multinazionali del paese come Lakshmi Mittal (16,7 miliardi di dollari) a capo del primo produttore di acciaio al mondo, Arcelor Mittal; Azim Premji (15,3 miliardi di dollari) di Wipro, terza compagnia indiana di IT; Dilip Sanghvi (12,8 miliardi di dollari) di Sun Pharma e, verso il fondo della classifica, i fratelli del gruppo Hinduja (10 miliardi di dollari).
Saldo in prima posizione tra gli indiani, 40esimo nella lista Forbes, si riconferma per il settimo anno consecutivo Mukesh Ambani (56 anni), presidente del gruppo Reliance, con un patrimonio di 18,6 miliardi di dollari.
In valore assoluto, il risultato di Ambani rientra nei minimi storici della sua carriera all’interno della classifica: nel 2008, quando il boom indiano era in piena fase di espansione, il capo di Reliance si era classificato al quinto posto generale, con 40 miliardi di dollari di patrimonio stimato. Il che la dice lunga sulla contrazione che India Inc. ha registrato negli ultimi anni.
L’impero di Reliance, fondata negli anni Sessanta, inizia a crescere sensibilmente all’inizio degli anni Ottanta quando il padre di Mukesh, Dhirubhai Ambani, ottenne dal governo di Indira Gandhi la licenza per aprire un impianto per la produzione di fibre di poliestere. Nel 1981 Mukesh viene richiamato in India dal padre – stava studiando per un Mba a Stanford – per consolidare la posizione di Reliance nel mercato globale, operazione che il giovanissimo imprenditore (all’epoca aveva solo 24 anni) portò a buon fine a tempo di record.
Nel giro di una decina d’anni, dal poliestere le operazioni di Reliance si espansero fino a comprendere una varietà eterogenea di spazi di mercato: dal petrolchimico al tessile, dall’estrazione di gas naturale alla rivendita al dettaglio, passando per telecomunicazioni e marketing. Oggi, camminando per le strade delle metropoli indiane, è difficile non imbattersi in un cartellone pubblicitario che promuova uno dei migliaia di prodotti targati Reliance, la seconda compagnia indiana per volume d’affari (73 miliardi di dollari di ricavi solo nel 2013) dopo la statale Indian Oil Corporation.
In un paese dove la popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà “indiana” (40 centesimi di euro di guadagno al giorno) oscilla intorno ai 270 milioni di persone – stime governative indiane, per la soglia indicata dall’Onu di 1,25 dollari al giorno, i poveri sarebbero ben più di 300 milioni – un personaggio come Mukesh Ambani fatica a passare inosservato, in particolare per il suo stile di vita assolutamente appariscente tipico della quasi totalità dei nuovi ricchi indiani, eccezion fatta per la dinastia Tata.
Ambani in India viene descritto come un imprenditore influente molto vicino alla famiglia Gandhi e all’Indian National Congress (Inc), un sodalizio che avrebbe configurato gli estremi di frode per delle licenze di estrazione di gas naturale accordate dal governo Singh a Reliance al di sotto del prezzo di mercato. Una vicenda che vede iscritto Mukesh Ambani nel registro degli indagati del cosiddetto “Coalgate Scam”, uno dei numerosi scandali che ha caratterizzato l’amministrazione dell’Inc negli ultimi anni.
Amante della vita mondana, Mukesh Ambani viene spesso ritratto nelle pagine di costume della stampa indiana, circondato da star e starlette di Bollywood, della moda e del campionato nazionale di cricket, dove l’imprenditore vanta la proprietà dei Mumbai Indians, la squadra della capitale economica dell’India.
Memorabili i party extralusso organizzati dagli Ambani nella loro residenza di Mumbai, Antilia. In spregio alla modestia che molti opinionisti consigliavano al magnate di Reliance considerando la forbice che divide i – pochi – ultraricchi dai – moltissimi – poveri indiani, Ambani e famiglia vivono in un edificio ultimato nel 2010, considerato un gioiello del design architettonico contemporaneo, progettato dallo studio Perkins + Will di Chicago.
Costato intorno al miliardo di dollari, Antilia (170 metri di altezza) consiste di 27 piani di acciaio e vetro resistenti ad un eventuale terremoto dell’ottavo grado Richter: una magione che, tra pulizie, manutenzione e faccende domestiche, necessità di una servitù di 600 persone.
Nel 2011, un anno dopo la chiusura dei lavori di Antilia, lo schivo Ratan Tata – ex presidente del gruppo Tata, l’uomo invisibile del jet-set indiano – in un’intervista al Times di Londra dichiarò: “Mi chiedo come mai qualcuno voglia fare una cosa del genere. Chi vive dentro un edificio simile dovrebbe preoccuparsi di quello che lo circonda e chiedersi se è nella posizione di fare la differenza. Se non lo fosse sarebbe molto triste, poiché il nostro paese ha bisogno di persone che investano parte del loro enorme patrimonio per trovare un modo di lenire le sofferenze della gente. Noi tutti stiamo facendo troppo poco per sradicare la disparità sociale: le stiamo permettendo di prosperare, limitandoci a desiderarne la fine”.
La dichiarazione scatenò un putiferio a mezzo stampa, costringendo l’ufficio per le pubbliche relazioni di Tata a ritrattare sostenendo che le frasi attribuite a Ratan Tata fossero state decontestualizzate dal Times (accusa che il quotidiano di Londra rimandò al mittente).
Al netto delle precisazioni, Antilia rimane ad oggi il monumento alla disparità dell’India, un paese a due velocità dove la distanza tra il popolo e i nuovi imperatori ha una misura precisa: 27 piani di acciaio e vetro.
[Scritto per Linkiesta; foto credit: rediff.com e angeliqueimwunderland.files.wordpress.com]