Il monsone ha colpito lo stato dell’Uttarakhand proprio nell’alta stagione del pellegrinaggio hindu. I morti potrebbero essere migliaia, mentre si punta il dito contro la costruzione selvaggia e l’impreparazione delle autorità nel gestire un’emergenza – prevedibile – di questa portata.
Il bilancio delle vittime del monsone, quest’anno arrivato a blandire il nord dell’India lievemente in anticipo rispetto le previsioni e con un’intensità straordinaria, potrebbe salire a cifre da tsunami.
Il paragone con la catastrofe naturale che colpì il subcontinente nel 2004, e che solo in India provocò quasi 20mila morti, è la reazione naturale dei media indiani davanti alle immagini trasmesse in ogni notiziario da tre giorni: fiumi di fango e detriti che inghiottono case e automobili, assieme a decine e decine di persone.
Stamattina il conto ufficiale era fermo a 182 morti; i dispersi si contano a migliaia, mentre i reporter locali riusciti a raggiungere le zone maggiormente colpite dal monsone raccontano scene apocalittiche, con cani randagi ed avvoltoi a cibarsi di cadaveri.
Le forti piogge si sono abbattute sullo stato settentrionale dell’Uttarakhand, al confine con Nepal e Tibet. Cercando di ovviare alla devastazione delle infrastrutture – 21 ponti spazzati via, cinque strade principali impraticabili – i primi a mobilitarsi per i soccorsi aerei sono stati 3000 soldati dislocati lungo la frontiera indo-tibetana. Il governo centrale ne ha inviati altri 10mila, nel tentativo di velocizzare le operazioni di soccorso che ad oggi hanno tratto in salvo più di 22mila persone.
La discrepanza tra le cifre ufficiali del governo – meno di 200 morti – e le stime della popolazione locale – almeno un migliaio – fanno emergere tutto l’imbarazzo dell’esecutivo, contro il quale ora si punta il dito per non aver messo un freno alla costruzione selvaggia che negli ultimi anni ha snaturato completamente l’ecosistema himalayano.
Tra progetti di dighe e centrali idroelettriche affidati, pare, anche a compagnie di tabacco o piccolo imprenditori di alcol senza alcuna esperienza nel campo, salta agli occhi l’enorme speculazione sul turismo religioso.
Una delle aree maggiormente colpite è infatti il distretto di Rudraprayag, dove sorge il tempio di Kedarnath, meta di pellegrinaggio hindu. Il fiume di fango ha spazzato via 200 dharamshala, ostelli per pellegrini, ed ora ci si chiede come fosse possibile per le infrastrutture locali gestire una quantità simile di turisti in caso di emergenza.
Un funzionario del governo di Delhi in vacanza nel distretto di Badrinath, in condizione di anonimato, ha dichiarato all’Hindustan Times: “Qui solo 100 persone sono state tratte in salvo con degli elicotteri. Ce ne sono altre diecimila e pare non ci sia modo di andarsene da qui”.
Nonostante la zona non sia nuova ad episodi di valanghe causate dalle forti piogge monsoniche – nel 2011 e nel 2012 ci furono anche delle emergenze terremoti – lo stato dell’Uttarakhand è l’unico a non aver messo a punto un’unità di crisi pronta ad intervenire in caso di disastri naturali per coordinare i soccorsi.
Nella tragedia riesce comunque a farsi largo il sentimento classista tipico dell’apparato amministrativo indiano. Ufficiali militari col compito di gestire i soccorsi hanno denunciato decine di telefonate di alti funzionari locali o della capitale che segnalavano parenti o amici bloccati in qualche albergo. Persone alle quali andava riservato un trattamento di favore, da salvare prima degli altri.
“La maggior parte di queste persone sono intrappolate a Badrinath, Yamunotri e Gangotri, dove i danni sono minimi. Sono località temporaneamente isolate ma ci sono abbastanza viveri per sopravvivere per giorni" ha spiegato un ufficiale dell’esercito al Times of India.
"Se sei in una stanza di un hotel, con cibo e un letto, perché dovremmo salvarti con urgenza? Capiamo il panico delle famiglie, ma ci sono persone nella valle di Kedarnath lasciate senza cibo, acqua o un riparo. Loro sono la nostra priorità”.
[Foto credit: timesnow.com]