Il trentennale della tragedia di Bhopal ricorda i rischi del mancato rispetto di norme per la tutela dei lavoratori e la manutenzione del posto di lavoro. Una lezione che, con 25mila morti e mezzo milioni di vittime delle esalazioni tossiche, l’India di Modi pare ancora non abbia imparato.
Qualche settimana fa mi si era rotta la presa della corrente a fianco al letto. Per qualche motivo, il malfunzionamento di quella presa aveva fatto saltare tutto l’impianto elettrico, tranne la presa del computer. Ho diligentemente chiamato il padrone di casa Prim-ji comunicandogli l’accaduto e Prim-ji, con solerzia ed efficienza svizzera, è sceso in strada a cercare un elettricista.
Risale dopo una ventina di minuti e l’elettricista – un ragazzo armato di cacciavite – si dirige verso la camera, si china e inizia a svitare la presa, alla presenza guardinga di Prim-ji. Io d’istinto lo fermo e dico al proprietario di casa se non fosse il caso di staccare il contatore prima. Lui ridacchia e mi dice che l’elettricista è un esperto, sa cosa sta facendo, di non preoccuparmi. E infatti ora la luce funziona.
Prim-ji non è uno sconsiderato, mostra anzi delle premure talvolta eccessive per la manutenzione della sua – temporaneamente nostra – casa. L’anomalia, ai miei occhi occidentali, è rappresentata da come un signore rispettabilissimo come Prim-ji non si ponga nemmeno il problema remoto di un uomo che armeggia con la corrente elettrica senza le dovute, seppur minime, precauzioni. Forse ci faccio particolarmente caso per esperienza personale: da una lampadina cambiata nell’appartamento di Casalbertone senza staccare la luce fino a mesi di scosse sistematiche quando vivevo a Santiniketan (in quella casa non avevano fatto la "messa a terra", credo si dica così, quindi ogni volta che aprivo il frigo prendevo la scossa), il mio rapporto con l’elettricità si è fatto sempre più cauto.
Cosa non vera, allargando lo spettro ai lavori manuali, per la stragrande maggioranza dei lavoratori in India. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti, basta camminare per strada: saldatori che si coprono il viso con un pezzo di carta; pulitori di vetri dei grattacieli che risalgono pareti seduti su una panchina di bambù issata con due corde; carrozzieri che ridipingono automobili con quelle pistole tipo aerografo in una mano, l’altra a coprire la bocca credendo di evitare le esalazioni; operai che stendono catrame per strada in ciabatte; uomini e donne che cuociono e trasportano mattoni a piedi nudi. L’elenco è potenzialmente infinito e si può trovare un esempio per davvero ogni ambito nel lavoro manuale.
Pensavo a queste cose dopo aver scritto della storia terribile della fabbrica di pesticidi di Bhopal. Mi ero documentato da qualche giorno tra documentari, articoli passati, testimonianze di Ong e foto (a buttar giù i conati di vomito, guardando le foto) e ho notato che le recriminazioni degli attivisti di oggi si muovono su due fronti: ricevere risarcimenti adeguati, inchiodando la multinazionale Union Carbide – ora parte del gruppo Dow Chemical – alle proprie responsabilità; sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni per incentivare il rispetto dei regolamenti circa la sicurezza sul posto di lavoro.
La questione della sicurezza sul lavoro qui assume dimensioni catastrofiche, da ecatombe. In questi giorni si parla molto sui media indiani di un rapporto stilato nel 2005 dall’International Labour Organization (Ilo). Ne ha parlato come solito in modo chiaro ed esaustivo il magazine online Scroll.in, con passaggi tipo:
[L’Ilo] ha evidenziato una strana anomalia: l’India, nel 2005, ha denunciato 222 incidenti fatali quell’anno, mentre la Repubblica Ceca, con una popolazione di lavoratori pari all’1 per cento di quella indiana, ne ha denunciati 231. L’Ilo ha stimato che "la vera cifra di incidenti fatali" sul lavoro occorsi in India sia 40mila all’anno.
Come sia possibile un divario del genere è presto spiegato riportando a galla il problema del "lavoro informale", di cui ho parlato abbondantemente con la professoressa Elisabetta Basile in un’intervista di qualche tempo fa. In India oggi il 90 per cento delle attività lavorative rientra nel cosiddetto "lavoro informale", cioè lavoro senza tutele, diritti, contratti.
Un mercato di cui il paese ha deciso di non voler fare a meno poiché, quoto dall’intervista:
In India oggi esistono due economie parallele: quella formale, abitata dalle imprese ‘formali’ e popolata da una parte consistente della classe medio-alta – stimata intorno a 300 milioni di persone – che gode di salari più alti e si rifornisce prevalentemente di beni e servizi prodotti in attività registrate (elettrodomestici nuovi, centri commerciali, hotel e ristoranti di lusso…); e quella informale, la realtà di tutti giorni nelle campagne e in gran parte dei contesti urbani, fatta di negozietti, mercati all’aperto e merci di seconda (terza e quarta…) mano.
C’è però un continuum fra le due economie, poiché anche l’economia formale impiega lavoratori informali nella manifattura e nei servizi. E questo si osserva sia nei "laboratori del sudore" (sweatshops) che producono merci di qualità variabile con forte sfruttamento del lavoro, sia nelle case, dove i lavoratori domestici sono sistematicamente senza diritti e senza tutela.
A questo si aggiunge la connivenza delle istituzioni indiane che hanno tutto l’interesse a "spazzare la polvere sotto il tappeto", specie ora che l’India di Modi rincorre il sogno di gigante della manifattura con la campagna Make in India facendo precisamente l’esatto opposto di ciò che sarebbe il caso di fare per scongiurare altre Bhopal: semplificazione delle leggi sulla tutela ambientale e dei lavoratori, meno potere – quel poco che hanno – all’ispettorato del lavoro, porte spalancate per i fondi e gli impianti delle multinazionali, la manodopera ce la mettiamo noi.
C’è un esercito in costante ricambio di lavoratori non tutelati, analfabeti, usati come carne da macello per far ripartire l’economia secondo il modello Gujarat, il modello Modi, il modello Bhopal. E questo, 3 dicembre 2014, è ancora tutto e solo quello che importa.
[Scritto per Elefanti a parte, ospitato da East online]