«Le acque del Kerala sono infestate da pirati». Quante volte l’abbiamo sentita questa frase, in bocca a politici, giornalisti e tecnici di varia natura? È una boutade lanciata lì senza spiegazioni, attingendo al senso comune collettivo costruito in anni di sistematico terrorismo mediatico, ormai introiettato acriticamente dall’opinione pubblica. Le cose, in realtà, stanno molto diversamente, e mentre l’Unione Europea se n’è accorta, l’Italia ha deciso di andare in direzione ostinata e contraria. Chissà perché. Su Twitter, la scorsa settimana, alcuni feticisti dell’informazione – in particolare Andrea Pira e Kung Paolon – mi hanno segnalato questa pagina della Gazzetta Ufficiale in cui si dà conto dell’«Individuazione delle acque internazionali soggette al rischio di pirateria nell’ambito delle quali e’ consentito l’impiego di guardie giurate a bordo delle navi mercantili battenti bandiera italiana». Cioè di dove, secondo il Ministero della Difesa italiano, il rischio di attacchi di pirateria è più alto, nelle acque mondiali.
Vi risparmio la ricerca delle coordinate di meridiani e paralleli: l’India, secondo i calcoli del ministero della difesa italiano, è nel bel mezzo di una zona ad alto rischio che comprende tutto l’Oceano Indiano e il Mar Arabico, il Mar Cinese Meridionale e lo Stretto di Malacca. L’India, secondo i tecnici dello Stato Italiano – basandosi sui rapporti pirateria dell’International Maritime Organization (Imo) – è letteralmente circondata dal rischio di pirati.
Il decreto in questione è datato 24 settembre e, all’epoca, non mi risultava niente di nuovo: le zone ad alto rischio ufficializzate dallo Stato italiano erano le stesse dell’Imo, una geografia del rischio pirateria che l’India almeno dal 2012 ha contestato in tutte le sedi istituzionali, sostenendo (spoiler: a ragione) che intorno all’India il rischio di «piracy and robbery» – sottolineo «robbery» – è assolutamente esiguo.
Qualche giorno dopo però, precisamente il 9 ottobre, mi è capitato sotto gli occhi questo. È un documento del governo indiano che si rallegra del fatto che, dopo tre anni di discussioni, l’European Union Chair of the Contact Group of Piracy off the Coast of Somalia (CGPCS) ha deciso – basandosi sui medesimi rapporti dell’Imo – di riportare la delimitazione est dell’area di alto rischio pirateria nell’Oceano Indiano al meridiano 65 (cioè in mezzo all’Oceano Indiano, molto lontano dalle coste dell’India), ritirando l’estensione dell’area stessa che, nel 2010, era stata portata al meridiano 78: che taglia quasi precisamente l’India in due e che, incidentalmente, comprende tutta la costa ovest indiana. Kerala compreso.
Nel documento si legge che l’estensione dell’area di rischio pirateria, nel 2010, ha portato «preoccupazioni inerenti alla sicurezza [dell’India] a causa della presenza di personale di sicurezza privato a bordo di imbarcazioni mercantili e di ‘armerie galleggianti’ nei pressi delle coste indiane. L’industria navale, inoltre, ha dovuto sostenere costi aggiuntivi per assicurazioni e implementazioni di varie raccomandazioni per transitare all’interno dell’area ad alto rischio».
Le nuove norme entreranno in vigore dal primo dicembre.
Riassumendo, significa che l’organo europeo preposto al monitoraggio e contrasto delle attività di pirateria internazionali ha deciso che lungo la costa ovest indiana i pirati non ci sono, prendendo atto dello scarsissimo storico degli ultimi anni in cui gli episodi di «piracy and robbery» – sottolineo «robbery» – al largo dell’India (tutta, non al largo del Kerala) sono pochissimi e TUTTI episodi di tentato furto a navi ancorate.
Prendiamo ad esempio il rapporto dell’Imo per il 2014.
Nella tabella 1, alla voce India, si contano 13 episodi di «piracy and robbery» nel 2014, 14 nel 2013, 8 nel 2012, 6 nel 2011, 5 nel 2010. Il paragone col resto del mondo, considerando l’estensione delle coste indiane, lo potete fare da voi.
Nella tabella 2, che copre tutto il 2014, si contano 12 attacchi effettivi nella sezione «boarded», cioè «abbordati», e un solo attacco tentato (e fallito).
Nella tabella 3 si elenca i porti dove sono occorsi gli attacchi: 3 a Kochi (in Kerala), 6 a Kandla (in Guajarat, molto più a nord, sempre costa ovest), 3 a Visakhapatnam (in Andhra Pradesh, costa est).
Nella tabella 4 si indica che tutte le imbarcazioni interessate da attacchi di «piracy and robbery» in India al momento dell’attacco erano ancorate, quindi ferme.
Nella tabella 10 si indica il tipo di arma utilizzata nelle azioni di «piracy and robbery» in India: 3 volte coltelli, 1 volta «other weapons», nove volte «not stated». Da notare che la colonna «guns», per l’India, è vuota.
A pagina 21 l’Imo mette in guardia i navigatori sulle aree dove il rischio di attacchi di pirati è particolarmente alto. Nella sezione sud-est asiatico e subcontinente indiano, l’India non c’è (c’è invece il Bangladesh, tra gli altri).
Tutto questo per dire che, lungo le coste indiane, il pericolo maggiore che incorrono i mercantili è rappresentato da ladri che abbordano navi ancorate in porto per fregare quello che possono, come ripetuto fino alla nausea anche dalle autorità indiane.
Ora, se questa descrizione coincide con l’idea di «pirati» o «acque infestate da pirati» diffusa negli ultimi anni per quanto riguarda le acque indiane, lo possiamo lasciare alla sensibilità di chi vorrà leggere. Una volta che trarrete le conclusioni che riterrete opportune, potrete anche misurare il grado di fuffa di chi – tra politici, tecnici, periti e giornalisti – continuerà a raccontarvi di acque indiane INFESTATE da pirati (qualcuno si spinge ad aggiungere addirittura «pirati somali»: gli episodi di pirateria somala, nel rapporto, sono contrassegnati con un asterisco. Divertitevi a individuarli).
E infine, potrete misurare il grado di fuffa di un ministero della difesa che, al contrario dell’Unione Europea, ha deciso di continuare a considerare l’India come un territorio ad alto rischio pirateria. Il perché lo faccia non necessita di spiegazioni.
[Scritto per East online; foto credit: wikia.com]