La musica prodotta dai Paesi anglosassoni negli Anni 60 affiancò il movimento Hippie durante un’epoca in cui l’India incarnò La Meta ideale del Viaggio, reale e simbolico, per un’intera generazione di giovani: anche di giovani italiani.
Con la mutazione avvenuta al principio degli Anni 60 in California da moda Beatnik a movimento Hippie e col suo rapido dilagare veicolato dalla diffusione sempre più capillare dei mass media, la musica prese velocemente il posto della letteratura come principale linguaggio comune tra gli adepti di un movimento che, a partire dal piccolo nucleo di artisti, scrittori e musicisti jazz che avevano dato vita da un lato alla Beat Generation newyorkina e dall’altro al San Francisco Renaissance, si era trasformato nel frattempo in un vero e proprio fenomeno di massa, caratterizzato da forti rivendicazioni politiche, sociali e ambientaliste.
L’India e le sue filosofie, già da decenni punto di riferimento per i pionieri di quei movimenti artistico-letterari di controcultura americana, divennero rapidamente protagoniste anche del nuovo linguaggio comune, nella cui sintassi si cercò quindi di inserire sin dal principio sonorità, modalità e strumenti musicali provenienti dal subcontinente indiano, a livello popolare del tutto sconosciuti fino a quel momento. Percepita come oasi di fuga ideale dall’inferno occidentale, foriero solo di valori obsoleti, razzismo, restrizioni, ingiustizie e guerre, in preda all’isteria anti-comunista e alla continua minaccia nucleare causata dalla Guerra Fredda, l’India mistica e millenaria, colorata e tollerante, socialista e non allineata, divenne così la meta privilegiata del Viaggio per antonomasia, possibilmente percorso via terra, On The Road, appunto, dando il via allora anche a quella corrente di backpackers e viaggiatori low cost che, seppur con altre modalità e motivazioni, doveva poi espandersi al mondo intero senza mai più arrestarsi.
A seguito della scoperta a metà degli Anni 50 della musica classica hindustani da parte dell’Occidente, con l’inizio del decennio seguente in Gran Bretagna si cominciò a inserire tablas e sitar – o sonorità a quegli strumenti assimilabili – nel repertorio musicale del panorama Beat, diffondendo poi rapidamente il trend a livello globale grazie alla cosiddetta British Invasion di quegli anni, mentre in USA la stessa tendenza si manifestava in principio solo nell’ambito ben più colto e circoscritto del Free Jazz.
Se il primato inglese spetterebbe di diritto agli Yardbirds, che per primi utilizzarono il sitar in una versione di Heart Full Of Soul, scartata però poi per questioni tecniche e pubblicata a Giugno del 1965 impiegando una chitarra che ne imitava al suo posto le sonorità, saranno alla fine di quello stesso anno i Beatles di Norwegian Wood, seguiti nel 1966 dai Rolling Stones con Paint It Black, a consolidare una tendenza che, una volta fusasi con le sperimentazioni jazzistiche americane, diventerà cifra stilistica di quegli anni col nome di Raga-Rock.
E in Italia? Cercando di escludere quanto possibile la miriade di covers di brani britannici che invasero la musica italiana di quegli anni, ecco una panoramica – certamente incompleta, ma spero sufficientemente rappresentativa – delle influenze indiane negli arrangiamenti e nei testi originali della musica pop italiana, a partire dagli Anni 60 e fino ai nostri giorni. (Sono gradite eventuali segnalazioni di ulteriori esempi!)
A fine aprile del 1966 a Milano venne affittato un terreno in via Ripamonti dove nacque una tendopoli che i quotidiani dell’epoca non esitarono a battezzare come Nuova Barbonia, abitata da "zazzeruti e anarcoidi senza famiglia". Il movimento Beat/Hippie era arrivato da tempo anche in Italia e con esso entrava nel repertorio musicale dei complessi Beat più attenti naturalmente anche l’India, come semplice citazione o direttamente con le sonorità mutuate dalle band inglesi, con risultati a volte sorprendenti ed evolvendo poi col tempo e nei casi migliori nelle abbondanti produzioni del Progressive Rock nostrano o nella World Music e, in quelli peggiori, rimanendo solo gratuita e/o datata citazione in contesti del tutto improbabili.
Al sitar di Beatles e Rolling Stones risponde con prontezza già nel 1967 l’Equipe 84, con Ladro, di Mogol-Battisti e Tutto E’ Solo Colore, cover ritmata ed irrinunciabile di Every Little Bit Hurts, mutuata dagli Small Faces ma in origine di Brenda Holloway, in quel monumento all’epoca che fu il loro 3° LP StereoEquipe, ma ci provano quello stesso anno anche I Camaleonti, con una versione piuttosto improvvisata e incerta della loro hit L’ora dell’amore, altra imperdibile cover, questa volta di Homburg, dei britannici Procol Harum.
Richiamarono però sonorità orientali quell’anno anche Le Stelle di Mario Schifano, così come le stesse appaiono ne il Volo della bolla, di Rumi, del 1969 e nel Dio al Neon de Le Mani Pesanti, del 1968.
Bisognerà poi aspettare che dagli Stormy Six si stacchi il bassista Claudio Rocchi per intraprendere la sua carriera in solitaria col Volo Magico #1, del 1971 e poi col manifesto Vado in India, del 1972, dove effettivamente era diretto e dove poi divenne monaco Hare Krishna per 15 anni, se si vogliono escludere citazioni gratuite, come Sitar, del trio femminile Le Ragazze Blu, del 1970, o quelle principalmente simboliche e letterarie di Alan Sorrenti, del 1972, o di Rino Gaetano, del 1974, fino a che Le Orme, delusi dall’exploit nucleare dell’India, che si desiderava immaginare invece eternamente gandhiana e nonviolenta, indirizzarono al Paese un brano nell’album Amico di Ieri, del 1975. E se nel 1978 persino I Pooh si sporgevano fuori tempo massimo a cantare di un viaggio in India, già però dal tipico sapore di viaggio organizzato con borsello e berretto omaggio, più che di avventura OnTheRoad, nel 1979 anche Franco Battiato immortalava una romantica Luna Indiana dalle suggestioni più beethoveniane che asiatiche e ripresa poi anni dopo anche da Alice.
Ma già al principo degli Anni 70 la mafia aveva messo le mani sul lucrosissimo traffico delle droghe e l’eroina si era diffusa in Italia a macchia d’olio, le plumbee cappe della strategia della tensione, delle bande armate, dei violenti scontri studenteschi e politici incombevano sulla società italiana, mentre verso la fine del decennio il movimento hippie si stava spontaneamente estinguendo in USA con la fine della leva militare obbligatoria e la conquista dei diritti civili per le minoranze e contemporaneamente la rivoluzione khomeinista in Iran e l’invasione russa in Afghanistan – durante la quale troverà la morte nel 1983 Raffaele Favero, ex-batterista de I Profeti – interruppero la Rotta Hippie via terra: gli esotici capelloni superstiti divennero agli occhi del mondo principalmente solo dei tossici, dei relitti disadattati, smarriti tra i parchi e le stazioni ferroviarie degli ormai edonistici Anni 80.
Con l’unica eccezione dello strano caso di AlBano & Romina Power e della loro I Cigni di Balaka, dal titolo di una raccolta di poesie di Tagore, composta nel 1981 e pubblicata dalla coppia nell’87 e che darà poi origine alla causa di plagio intentata contro Michael Jackson nel 1992, bisognerà infatti lasciar passare tutto il decennio perchè coloro che per questioni anagrafiche non avevano partecipato al movimento hippie lo rivalutassero, riportando nella musica italiana a partire dagli Anni 90 nostalgie e citazioni indiane, interpretate però ora alla luce dell’estensione di consapevolezza planetaria proporzionata dall’avvento e poi dall’instaurarsi definitivo del Villaggio Globale già preconizzato negli Anni 60.
Tornano allora a citarla I Timoria con Finardi, nel 1993, seguiti da Lorenzo Jovanotti, nel 1994, e da Antonella Ruggiero, con l’album Libera del 1996 e poi, con la consueta ironia, anche Elio e Le Storie Tese, con L‘eterna lotta tra il bene e il male, del 2000; la menzionano nel 2002 anche gli Afterhours, con Varanasi baby e Bye Bye Bombay, e persino Paola&Chiara azzardano quell’anno un sexy cha-cha-cha Kamasutra. Battiato ci si rituffa nel 2003 collaborando con Yasomati, degli Indo-fiorentini Govinda, che si innestano con successo nel genere Buddha Bar anche con l’album seguente, del 2010, Atom Heart Madras, mentre si immagina l’India di Corto Maltese con Paolo Conte nel 2004 e poi arriva quella dagli echi barocchi ed elegantissima di Sergio Cammariere, con la sua Varanasi del 2009, fino al progetto più recente delle Nuove Tribù Zulu, Banjara! 2012, passando dal divertente Bhangra-Liscio di Pakistano Reggiano, dei Babel, e certamente senza dimenticare la notevole produzione effettuata nel corso degli anni dall’ex-Area Paolo Tofani, da tempo monaco Hare Krishna o dell’ex-Le Orme Aldo Tagliapietra.
Impossibile poi non tracciare un parallelo tra l’India fumettosa e irriverente del Marajà di Vinicio Capossela, del 2010, con quella estemporanea e tutta napoletana di Pasqualino Marajà, tratteggiato nel 1958 da Renato Carosone e interpretato da Domenico Modugno a seguito di un fatto di cronaca accaduto l’anno precedente, quando la figlia del Maharaja di Palitana, in crociera nel Mediterraneo con la famiglia, conobbe e si innamorò a Capri di un giovanotto benestante, Gennaro Ottieri, che poi sposò al cospetto della cittadinanza in festa capeggiata dall’allora sindaco Achille Lauro.
[Anche su GuidaIndia; foto credits: truthseekers.cultureunplugged.com]*Alessandra Loffredo è fondatrice e redattrice di GuidaIndia